Rapporto Draghi: se l’Europa non si divincola dall’abbraccio americano, muore (ma Draghi non ne parla).
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Rapporto Draghi: se l’Europa non si divincola dall’abbraccio americano, muore (ma Draghi non ne parla).
L’analisi delle cause del declino dell’Europa nel Rapporto Draghi (qui), è più interessante delle proposte per uscirne.
La produttività pro-capite (fatto =100 quella degli Stati Uniti) è cresciuta in modo costante nel dopoguerra, salendo dal 40% degli anni ’50 fino al 95% nel 1995; oggi è scesa al 70%. “Su base pro capite, il reddito disponibile reale è cresciuto quasi il doppio negli Stati Uniti rispetto all’UE dal 2000, ma è anche vero che le famiglie dell’UE risparmiano di più rispetto a quelle statunitensi e la loro ricchezza è cresciuta di un terzo dal 2009”; anche se poi, discernendo per decili di reddito, si scoprirebbe che solo il 20% delle famiglie ricche è cresciuto.
In ogni caso non sarebbe drammatico mantenere questo livello di benessere, se potessimo vivere in un mondo di
pace e meno inquinato, dove c’è una cooperazione multilaterale. E ciò vale in particolare per l’Europa, che come dice lo stesso
Draghi “tra il 2000 e il 2019, ha accresciuto la sua quota del commercio internazionale sul PIL dal 30% al 43%, mentre negli Stati Uniti è passata dal 25% al 26%. L’apertura commerciale ha fatto sì che l’Europa potesse importare liberamente i beni e i servizi di cui era carente, dalle materie prime alle tecnologie avanzate, esportando al contempo i prodotti manifatturieri in cui era specializzata, in particolare verso i
mercati in crescita dell’Asia”. Se c’è qualcuno che trarrebbe grandi benefici da un mondo multilaterale e di accordi con Cina, Russia e Brics è proprio l’Europa. Basta leggere quanto dice lo stesso rapporto Draghi sulle materie prime critiche: “gran parte dell’estrazione e della lavorazione è concentrata in Paesi con cui l’UE non è strategicamente allineata. Ad esempio, la Cina è il più grande trasformatore di nichel, rame, litio e cobalto, con una quota compresa tra il 35 e il 70% dell’attività di lavorazione”; senza queste materie prime, nessuna innovazione tecnologica sarà possibile.
Per noi europei, rinunciare a queste materie prime a basso prezzo, ai mercati esteri di questi paesi per noi vantaggiosi, per “spirito di servizio” è un grave danno. Draghi ammette che “la globalizzazione ha esacerbato le disuguaglianze”, che il reddito da lavoro è calato del 6% nei paesi del G7, che le differenze si sono accentuate tra città, tra città e campagne e periferie e “che i governi sono stati visti come indifferenti”. Ma poi non c’è nessuna proposta nel merito.
Se c’è declino rispetto agli anni ’80 e ’90 (prima dell’unificazione europea) vuol però anche dire che sono stati commessi gravi errori, ma su questo punto nulla si dice perché significherebbe criticare gli Stati Uniti, che ci hanno usato come un “mero mercato”. Draghi
lancia un allarme sulla necessità di salvare l’Europa dal suo declino in quanto così procedendo non saremo più in grado di continuare a garantire gli attuali livelli di benessere e aumenterebbero gli esclusi. Cosa propone per invertire la rotta?
1 75mila dollari pro-capite in Usa, contro 55mila in Europa, sono dovuti per il 70% a maggiore produttività e per il 30% al fatto che gli
americani lavorano più ore degli europei. Draghi propone una spesa annua con fondi comuni di investimento (750-800 miliardi, pari al 5% del PIl: l’attuale bilancio UE è del 2%) per accrescere la competitività dell’Europa che, lungi dall’essere diventata, come si diceva nel 2000, l’economia della conoscenza più competitiva nel 2010, ha registrato un arretramento rispetto a Stati Uniti e Cina del 20% nella produttività dei principali settori strategici. Da qui la proposta di investimenti pubblici e privati comuni europei in Innovazione (puntare al primato delle batterie elettriche), nella Difesa militare (e ricostruzione dell’Ucraina), tenendo in Europa le produzioni, nell’Energia (che oggi paghiamo 2-3 volte in più degli Usa e il gas naturale 5 volte -60 euro per MWh contro i 12 degli Usa-, con la perdita delle forniture della Russia), in Decarbonizzazione ed in Energie rinnovabili. Draghi propone alleanze tra imprese in modo da formare “campioni europei” in grado di competere con i principali big (Cina e Usa), anche nel settore industriale e nelle auto evitando de-localizzazioni e acquisto di nostre imprese da parte di stranieri.
Prendendo a prestito il refrain di una canzone: sembra tutto “bello e impossibile”, non essendo l’Europa un’ entità politica ma solo un grande mercato – come gli Stati Uniti hanno sempre voluto. E se si vuole decidere a maggioranza, allora bisogna riformare le Istituzioni,
avviare una fase costituente democratica e prendersi anche le grane, tra cui la tassazione. Una grande ristrutturazione implica infatti dei “perdenti” (piccole imprese che chiudono, licenziati, territori svantaggiati) che avrebbero bisogno di essere tutelati con una indennità
comune europea (che non c’è) e con risorse che dovrebbero derivare da una seria tassazione dei più ricchi (che non si vogliono tassare). E poi un debito comune significa comunque più interessi da pagare che ridurrebbero, stanti le politiche restrittive dell’Europa, le spese per scuola, sanità e pensioni.
Insomma un piano da “banchiere che osa”, nel senso di fare debito comune per favorire alcuni settori (ma non scuola e sanità che sono punti di forza nel mondo e che possono tradursi anche in beni vendibili), ma che non si spinge a indicare come tutelare welfare e perdenti e a indicare che l’Europa deve passare dall’essere il più grande mercato dei capitali e delle merci (senz’anima) a una entità politica che
scalda i cuori in quanto diventa autonoma, propositiva nel mondo e portatrice di pace (non di guerra).
Che significa più grandi imprese, alleanze transnazionali con processi di concentrazione che porteranno alla chiusura di molte piccole imprese e licenziamenti delle fasce più deboli dei lavoratori. Una volta si diceva: “chi paga questa ristrutturazione?”. Non essendo l’Europa uno Stato unitario (come Cina e Usa) ma un mero mercato, le conseguenze saranno un ulteriore rafforzamento dei paesi e imprese più forti a discapito degli altri. A parte il fatto che Germania, Francia e i paesi nordici non sono disponibili a fare debito comune, emerge tutta la debolezza di una costruzione europea fatta in funzione degli interessi americani, i quali mentre creavano con fondi sia pubblici che privati i loro monopoli big tech nel digitale, distruggevano le nostre imprese tecnologiche, avendo solo bisogno di aggiungere al loro mercato interno quello europeo.
Ciò spiega l’espansione ad est e la proposta demenziale di integrare prima nella Nato e poi nella UE altri 10 paesi balcanici. Gli Usa sono anche riusciti a diventare gestori globali dei prezzi dell’energia, il cui ultimo ostacolo era il basso gas russo che ora compriamo dall’”alleato” a prezzo triplo. Infine la finanziarizzazione anglosassone dell’economia che, come scrive Alessandro Volpi (docente a Pisa) in “I padroni del mondo”, riesce a dirottare gran parte dei risparmi degli europei nei fondi Usa che finanziano la loro crescita.
L’idea dei “campioni europei” sarebbe bella, ma arriva un tantino tardi, quando i giochi sono già tutti fatti. Almeno si è chiusa la vicenda Apple-Irlanda, partita da una decisione della Commissione Europea che aveva affermato che Irlanda aveva concesso un aiuto di Stato ad Apple, avendole fatto pagare dal 1999 al 2014 meno dell’1% di profitti, anziché il 12,5%. La Corte di Giustizia ha dato torto alla multinazionale: quindi Apple dovrà restituire 13 mld di euro che, peraltro, dovrebbero essere redistribuiti a tutti i paesi europei che acquistano i prodotti Apple.
E’ comunque evidente che l’Europa ha bisogno non di “più economia”, ma di “più politica”, il che significa diventare indipendente dagli Usa e perseguire i nostri interessi. Finchè non sarà spezzato questo nodo gordiano, tutte le proposte sono illusorie o, come quelle di Draghi, possono rafforzare alcune imprese e aree a discapito di altre, creando ancor più malumore e impoverimento, oppure usare il debito comune per il riarmo, che appare la proposta più percorribile: le produzioni sono frammentate -12 carri armati contro uno degli Stati Uniti- ma è anche vero che siamo, dopo gli Usa, coloro che spendono di più nel mondo e non ci sarebbe affatto bisogno di spendere di più se fossimo indipendenti. E’ un riarmo, inoltre, che sottrarrebbe risorse al welfare (di cui mai si parla, se non per proporre una privatizzazione e finanziarizzazione delle pensioni).
Se non avviene uno shock esterno (o interno) le prospettive sono quelle di un declino di tutti gli europei, foriero di grandi convulsioni politiche, perché gli elettori certo non si rassegneranno a impoverirsi e a vivere in perenne stato di guerra e sanno bene quanto erano più benestanti e pacifici nel secondo dopoguerra.
In copertina: “Alessandro recide il nodo gordiano”, Jean-Simon Berthelemy
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Andrea Gandini
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