L’importante è stare in scena. Un racconto
L’armonica, eh, ci vuole l’armonica. E anche la voce, per cantare come Van Morrison, Robert Plant, Freddie Mercury, Eric Clapton e tutti gli altri. L’importante è stare in scena.
Lui viveva proprio per questo. Per che cosa, se no? Da una vita porca bisogna pur uscire in qualche modo. Con le serate. Con le donne. Con le birre e il whisky. Con le canne, la coca, l’ecstasy. Soprattutto con il casino, che più ne fai, più ti diverti. Anche se hai cinquant’anni. Perché bisogna essere beyond the barrier, oltre l’ostacolo. Andare al di là del bla-bla di tutti i giorni, dei legami, delle convenzioni, oltre la forma che l’esistenza t’impone schiacciandoti, riducendoti a un niente.
E così suonava con una compagnia di svitati come lui alle serate nei dintorni, a qualche rave in capannoni dismessi delle periferie, a feste di compleanno in cui tutti bevevano come spugne, alle fiere grandi e piccole dove per spendere poco gli organizzatori si affidavano a chiunque mettesse insieme quattro note in modo decente. Quella era la sua vita vera, l’altra era un’abitudine biologica, un tempo per campare facendo lavoretti.
Un giorno lo chiamarono per un concerto, in sostituzione di un cantante rock degli anni Sessanta che all’ultimo momento aveva dato forfait. Si preparò con cura maniacale, litigando aspramente con quelli del suo gruppo perché secondo lui sbagliavano troppo. Provò decine di volte davanti a uno specchio per studiare tutti i movimenti per il palco. Studiò e ristudiò le canzoni del suo repertorio. Trovò un vestito che avrebbe potuto indossare Mick Jagger. Trascorse ore e ore a suonare la chitarra, l’armonica e a cantare.
Giunse finalmente la sera tanto attesa. La sala era grande, rumorosa, piena di gente. Lui e la band arrivarono un po’ tardi per creare aspettativa. Salirono sul palco e cominciarono a suonare. Dopo qualche brano lui iniziò a correre sul palco come un ossesso, cercando il feeling con il pubblico.
Corse e saltò fino a quando, dopo aver tentato un volo alla Nureyev lanciandosi dalla batteria di amplificatori, cadde rovinosamente sull’assito, battendo il capo e restando immobile, come un burattino senza fili. In sala calò un silenzio assoluto che durò lunghi attimi. Poi dal fondo partì un coro: Forever young, I want to be forever young…
I soliti invidiosi, pensò prima di morire.
(Da “Tre sguardi in uno” Pendragon, 2015)
© Franco Stefani, 2024
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