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pubblicato su Volere la luna del 11 giugno 2024

“Come si è potuti arrivare a questo?” La domanda che si pone Francesco Pallante in apertura nel suo “Spezzare l’Italia. Le regioni come minacce all’unità del Paese”, in libreria da qualche settimana per Einaudi, scuote la coscienza del lettore. Come è potuto accadere, quali eventi, quali dinamiche, quale politica ha potuto immaginare uno stravolgimento così evidente della Costituzione italiana e del suo assetto territoriale? Quale orizzonte ci attende? Cosa accadrebbe qualora lo Stato si trovasse improvvisamente privato della possibilità e degli strumenti necessari per realizzare politiche sociali, ambientali, culturali, economiche improntate all’unità e alla solidarietà nazionale?

Le risposte dell’autore sono ispirate a un realismo amaro, ma, al tempo stesso, hanno il vigore di una denuncia, civile ancor prima che giuridica. Una volta in vigore, l’autonomia differenziata di Calderoli e della Lega, supinamente avallata da Giorgia Meloni in virtù di un patto implicito che coinvolge il contemporaneo snaturamento della forma di governo parlamentare (impensabile il premierato senza l’autonomia, ha ribadito in questi giorni, lo stesso Calderoli), produrrà conseguenze gravissime per i cittadini e per i loro diritti, incrementando differenze tra il Nord e il Sud del Paese già oggi insostenibili, nel campo dei diritti fondamentali, dei servizi e della loro fruizione.

L’autore, da costituzionalista, affronta i nodi giuridici del percorso tenacemente perseguito dal Governo in carica, ne segnala le incongruenze e i rischi, ne individua i presupposti storici e politici, restituendo un’immagine inquietante dell’Italia differenziata. Il filo rosso dell’analisi è lo stravolgimento della dimensione costituzionale dell’autonomia, non più pensata come funzionale all’emancipazione, come condizione strutturale in grado di garantire l’effettività dell’eguaglianza sostanziale che la Costituzione prescrive, all’art. 3, secondo comma, come compito della Repubblica, ma come fattore di separazione ed esclusione, a vantaggio dei territori più ricchi e dei cittadini più abbienti.
La riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, che Gianni Ferrara definì “un monumento di insipienza giuridica e politica” ha rappresentato, nella prospettiva di Pallante, il momento culminante di un rovesciamento di senso che politicamente e giuridicamente era in atto da tempo. Sul piano politico, in virtù dell’emersione di una paradossale “questione settentrionale” fondata sull’ideologia del “prima il Nord”, stanco di vedere il proprio destino economico condizionato dai “parassiti” meridionali. Sul piano giuridico, attraverso la legge costituzionale n.1 del 1999, che nell’introdurre l’elezione popolare diretta del Presidente della Giunta regionale, accompagnata dal famigerato vincolo dell’aut simul stabunt aut simul cadent, diretto a legare in maniera inestricabile la sorte dei Consigli e del Presidente, aveva determinato la definitiva conversione “iper-presidenziale” della forma di governo regionale parlamentare-assembleare vigente sino al 1995. Quanto accaduto solo due anni dopo, nel 2001, rappresentò, spiega Pallante, il suggello di una tendenza che, all’epoca, i dirigenti del centro-sinistra non compresero, o, peggio, decisero incautamente di cavalcare in omaggio a un confuso tentativo di aggiornamento delle istituzioni, facendo così il gioco della Lega. Il risultato di quelle riforme – opportunamente ricorda l’autore – fu la progressiva spoliticizzazione della vita pubblica e politica regionale, simbolicamente rappresentata dalla marginalizzazione estrema delle assemblee rappresentative regionali, che la tragica esperienza della Pandemia da Covid-19 ha reso, se possibile, ancor più evidente.

La confusione che ne derivò – frutto di una riforma costituzionale priva di pensiero e di progetto, inadeguata nelle finalità e nel metodo (fu approvata, come si ricorderà, a maggioranza assoluta dei voti) – esaltò a dismisura la funzione degli interpreti, Corte costituzionale in primis. A partire dai primi mesi successivi alla modifica del Titolo V la Corte, ricorda l’autore, fu investita da un contenzioso di notevole entità, che provocò l’espansione dei propri poteri e la sua complementare esposizione a critiche giuridiche e politiche. Il risultato – che Pallante evidenzia puntualmente – è stato una trasfigurazione delle stesse parole. L’esempio delle materie trasversali, le ricadute sulla divisione delle competenze, l’intreccio tra materie, non materie, funzioni e compiti, l’emersione del criterio della prevalenza, sono sintomi della fatica compiuta dalla Corte e dagli interpreti per restituire coerenza minima a un sistema divenuto inevitabilmente caotico. Un compito improbo, riuscito solo in parte.

Spesso si dice che il potere ami l’ordine. In realtà è vero anche l’inverso. Il potere prospera nel caos, che, non a caso, consapevolmente produce, anche svolgendo in mala fede la sua funzione di dettare le regole. Per spezzare l’Italia, insomma, è necessario spezzare anche il diritto. Il disegno di legge Calderoli rappresenta, in tal senso, il suggello di una progettualità distorta che da tempo regna egemone nel firmamento dell’autonomia. Al tempo stesso rivela che, oggi, nulla riesce ad intaccare la folle logica di un Governo che, sin dal suo insediamento, ha scelto di fondare la sua azione sulla coppia premierato assoluto-autonomia differenziata. Le decine di audizioni parlamentari di costituzionalisti, economisti, sociologi, tecnici e le critiche serrate al progetto prodotte da associazioni, centri-studi, sindacati e persino dalla Conferenza episcopale italiana, il cui recente appello a “crescere insieme” è stato bollato dallo stesso Calderoli come mera “propaganda”, non sono riuscite a scalfire il nucleo del progetto, la cui definitiva approvazione è prevista in queste settimane.

Tutti gli interventi ricordati sono stati diretti ad evidenziare gli enormi limiti, di metodo, di contenuto, di indirizzo, di un disegno che mortifica le esigenze dell’autonomia costituzionalmente riconosciuta, che deprime il Parlamento, chiamato a ratificare senza indugio le intese che il Governo contratterà con gli esecutivi regionali, che coinvolge tutte le materie indicate in Costituzione senza fare alcun riferimento ai potenziali vantaggi, in termini di maggiore eguaglianza e maggiori diritti e che condiziona l’erogazione delle risorse necessarie per l’esercizio delle competenze trasferite all’azione successiva, segreta e misteriosa, di Commissioni paritetiche destinate a surrogare il Parlamento.

In questo quadro, a tinte assai fosche, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali che, secondo la Costituzione, devono essere garantiti uniformemente su tutto il territorio nazionale, rischia di essere una toppa peggiore del buco, o, ancora, la copertura formale di un disegno per certi versi diabolico. Il laborioso procedimento funzionale alla loro individuazione, la sequenza oscura per la loro concreta definizione, l’incerta sorte delle materie e delle funzioni non LEP, immediatamente trasferibili, che riguardano ambiti di cruciale importanza, costituiscono, per Pallante, segnali indiscutibile di uno stravolgimento della Costituzione che, diversamente da quanto ha deciso di fare il Governo, prevede che sia il Parlamento a definire i LEP tramite legge, che essi siano individuati e definiti in tutte le materie (e non in alcune, come nel disegno di legge Calderoli) e che il loro integrale finanziamento si imponga rispetto alle esigenze di bilancio. Un quadro scomposto e frammentato, che, tra le altre cose, sconta “incredibilmente”, secondo l’autore, la scelta in base alla quale l’assegnazione delle risorse necessarie alle Regioni per l’esercizio delle nuove competenze non dipenderà dall’individuazione dei LEP, ma sarà definito da una commissione paritetica Stato-regioni “sulla base di una complicata serie di parametri incentrata sul gettito dei tributi raccolti sul territorio regionale”. La posta in gioco è, infatti, ancora una volta l’assegnazione del residuo fiscale che la Corte, già dal 2016, ha giudicato essere un parametro insussistente ed inutilizzabile, alle regioni più ricche che, all’indomani della differenziazione, lo saranno, inevitabilmente, ancora di più.

Cosa fare, una volta che il disegna di legge Calderoli sarà in vigore? Come contrastare, con gli strumenti del diritto, la deriva che Pallante lucidamente descrive? Il cerino, come già nel 2001, passa alla Corte costituzionale. Da un lato il Giudice delle leggi potrebbe decidere, data a posta in gioco, di aggiornare la sua giurisprudenza in materia referendaria sulle leggi atipiche e sulle leggi collegate al bilancio, come quella in oggetto, considerando ammissibili eventuali richieste referendarie rivolte alla sua abrogazione totale o parziale, dall’altro potrebbe risultare decisiva dinanzi all’eventuale presentazione di ricorsi in via principale proposti dalle regioni che, per bocca dei loro presidenti, si sono sinora mostrate ostili all’autonomia differenziata. Una strada impervia, alla quale non si sarebbe dovuti giungere, in nome della Repubblica una e indivisibile.

Michele Della Morte
Professore di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi del Molise. Ha scritto, tra l’altro, Rappresentanza vs. partecipazione? L’equilibrio costituzionale e la sua crisi (Franco Angeli, 2013)

 

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