Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali possono essere sottoposte a referendum se si verificano determinate condizioni stabilite dalla legge. In tal caso, per la validità della consultazione non è richiesto un quorum minimo di votanti. Per la validità della consultazione popolare proposta dalla Cgil, invece, è necessario che vada alle urne la metà degli aventi diritto al voto più uno. Ecco, questo può creare confusione. I cittadini potrebbero pensare che andare o meno a votare non faccia differenza, mentre non sarebbe così.
Certo! Nonostante i dubbi sulla tempistica, questi referendum sul lavoro sono sacrosanti: mettere i lavoratori in condizioni di maggiore tutela è una questione straordinariamente importante. Metterci la firma oggi e andare a votare domani. Il numero delle firme raccolte darà l’indicazione della partecipazione e al tempo stesso dello scontento dei cittadini.
È anche vero che in alcuni casi, anche per referendum che hanno registrato una grande partecipazione al voto, la volontà del popolo non è stata rispettata.
Sì, c’è anche questo rischio. Prenda il referendum sull’acqua pubblica, nonostante la vittoria dei proponenti il legislatore non ne ha tenuto conto. Questo naturalmente fa radicare nei cittadini l’idea che lo strumento sia inutile, che loro stessi non abbiano potere, con il risultato che non vanno a votare, come avviene per le elezioni. Questo non è un bel segnale, è un tassello in più di erosione della funzionalità degli strumenti di decisione politica.
Il lavoro ha quindi caratteristiche opposte, ma le società democratiche moderne hanno voluto attribuirgli una valenza politica e sociale: è condizione di emancipazione e ci consente una vita libera e dignitosa se non è sfruttamento. Per chi è partita Iva il lavoro è essenzialmente un mezzo di guadagno, uno strumento per portare a casa qualche soldo, ma è svincolato dai progetti di vita. È un problema culturale e politico che il sindacato dovrebbe affrontare. Ma è un’impresa titanica.
E il secondo aspetto qual è?
Sono passati i tempi in cui le grandi politiche industriali le facevano i governi, in cui c’era un’industria nazionale e il lavoro era inteso come occupazione stabile, con contratto a tempo indeterminato, e aveva un valore e una potenza. Tutto è cambiato e le responsabilità sono a destra come a sinistra. Oggi il lavoro è sempre più percepito come una condizione di necessità per sopravvivere; è sempre meno assicurato dalla progettualità politica e sempre più un esito delle scelte di mercato, le cui regole assomigliano a leggi naturali come quelle della fisica.
Inoltre dalla fine del Novecento si è generata la convinzione che i governi possano fare ben poco nella progettazione delle politiche economiche, perché queste sono legate più ai flussi globali e internazionali che agli stessi Paesi. In questo contesto l’Europa unita ha dimostrato di avere funzioni antitrust e regolative. È un’ottima cosa che ci sia, ma è la prova che la sovranità degli Stati ha molto meno potere che in passato, se non associata in entità sovrannazionali.
E poi c’è la questione della salute e della sicurezza sul lavoro, su cui il quarto quesito della Cgil prova a mettere un paletto.
Il lavoro non dovrebbe essere sofferenza pura né dovrebbe mettere a rischio la vita di nessuno. Se succede è un campanello di allarme, significa che la società è meno democratica e che c’è più attenzione agli interessi di una parte. Non si può usare il lavoro come strumento per arricchire qualcuno al di là della sicurezza, non si possono ridurre i costi al massimo per espandere i profitti come accade nelle attività di subappalto. Su questo e sul lavoro, destra e sinistra devono dimostrare la loro distanza e differenza.
Cover: immagine da Facebook Cgil Roma Lazio
Lascia un commento