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Presto di mattina. Luci d’avvento

Luci d’Avvento

Le luci d’Avvento, come voci silenti, ci chiamano a riscoprire e riappropriarci del carattere di luce proprio della fede. In lumine fidei è il cammino di coloro che, sentendo una luce che li chiama dentro alla notte, rischiano la partenza, decidendo nel cuore di dirigersi verso di essa. Sono coloro che, passando per la valle del pianto, accendono lumi nell’oscurità.

«È notte. Sul lago Kivu vedo le luci delle lanterne delle piroghe mentre ascolto le nenie ritmate dei pescatori alternate a momenti di silenzio – così scriveva p. Silvio Turazzi nel 2018, ricordando le tante luci del martoriato popolo congolese -. Penso alle tante luci che ho visto risplendere sul volto di uomini e donne, riflessi di quella luce, Dio, che illumina la vita, oggi e sempre.

“Luci”, legate a varie persone incontrate al Centro per Handicappati, alla prigione, nelle comunità parrocchiali della Diocesi di Goma, al popolo di Dio, che è in Congo. “Ti rendo lode o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25-26).

È giorno. Guardo il lago. Vedo il riflesso della luce del sole, come un mare di gocce di rugiada. Sembrano stelle sulle acque del lago. Così l’uomo, come un punto di vita aperto all’universo. Ogni uomo e donna è chiamato a scoprire il valore dell’“io”. Nessuno è “nulla” ma un punto di vita aperto all’universo. La luce di Dio penetra ciascuno di noi e ogni cosa» (Luci, Fraternità missionaria. Missionari Saveriani, Vicomero di Torrile [Pr] 1918, 5; 9).

«È qui dove vivendo si produce ombra, mistero
per noi, per altri che ha da coglierne e a sua volta
ne getta il seme alle sue spalle, è qui
non altrove che deve farsi luce»
(Mario Luzi, Tutte le poesie, 222).

E sarà la luce, portatrice di colori, che ci disegnerà i passi e mostrerà sentieri, verso l’orizzonte, vado dopo vado.

“Arrischiate luci d’Avvento! Fateci luce!”, al modo delle stelle a rincuorare le notti; o come il lume della fede a rincuorare il cuore, fate luce al modo della preghiera, che fa scintillare anche le lacrime più nascoste.

Luce intermittente

Come parola e silenzio, oscurità e chiarore. Sappiamo bene infatti che Cristo non è venuto al mondo semplicemente come luce, ma come luce nell’oscurità fin nel suo sprofondo (Gv 1,5). È la luce di Cristo che ci disegna i passi, ci apre la via: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”.

E scrive María Zambrano: «Non c’è niente come la luce, per trasformare il modo in cui appare un luogo, e persino il volto delle persone. La luce, una volta entrata attraverso gli occhi, penetra fin nei centri più intimi dell’organismo, fino a quelle che nel linguaggio comune si chiamano viscere. Nella luce, inoltre, si bagna la pelle e il pensiero. La luce, prima che vista, è sentita; è secondo la luce che il cosiddetto cuore vibra, si addormenta, si placa, si accende o si scoraggia» (M. Zambrano, Dire luce, Rizzoli, Milano 2013, 197).

E poi illumina l’Avvento il suo triplice “Sí”.

Sai chi mi disegna i passi?
Chi mi detta di partire di tornare di sostare?
Chi mi dice «lascia»?
Chi mi dice «prendi»?
Una luce pulsante
la sua vita è la sua intermittenza
la mia è manovrata dalle sue oscillazioni
la tenuità di un segno a matita
sempre provvisorio perché non mi sopravviva.
Seguo l’evidenza della luce che non vedo
ma sulla pelle avverto: sí, sí, sí.
(Chandra Candiani, Pane del bosco 2020-2023, Einaudi, Torino 2023, 16).

Viene la luce

La luce che accende le luci d’Avvento somiglia a quella del solstizio d’inverno, invisibile agli occhi che scrutano invano l’oscurità. Essa assomiglia anche alla luce di Gesù nel seno materno, o in fasce nella grotta della sua natività, o nella vita nascosta per trent’anni a Nazaret.

Simile pure a quella luce ancora più segreta e imprigionata nel legno della sua e di ogni croce; sentinella in ogni notte e in gemito d’uomini, di popoli, di creature, levatrice nelle doglie dell’intera creazione. E tuttavia è luce visibile che avanza attraverso la sua ombra, è l’invisibile luce riflessa, rifrangente, cangiante in ogni cosa illuminata. Un passo, un altro passo, un giorno dopo l’altro, perché è luce che non teme l’oscurità immobile del sepolcro.

«Nessuna tenebra, per quanto fitta, fa disperare che una qualche luce, o qualcosa della luce, possa penetrare in essa. Qualcosa della luce. Ma c’è forse qualcosa nella luce che non sia essa stessa luce, qualcosa che non si risolva in luce? Non è forse la luce una attualizzazione già completa del proprio essere? Per questo simbolizza la riuscita, il compimento, e verso il compimento, come una calamita, attrae ogni essere che si dibatte tra l’imperativo di essere e la dissoluzione costante, tra l’oblio in cui giace e il mutismo che risponde al suo appello» (M. Zambrano, Dell’Aurora, Marietti, Genova 2000, 58).

Sí, sí, sí, luce nel buio, ma non spenta; luce in lotta, ma mai sopraffatta; impoverita ma non derubata, da nessuno espropriata della forza della speranza. Scintilla nell’opacità, luminoso spirito nella carne di ogni corpo, santa materia immateriale di ogni essere creato: «Allora la luce è l’unica calamita. Sì, quando Dio non risponde, quando nessuno appare, la luce sola è la presenza, essere che quietamente e senza negarsi, senza disperdersi, si diffonde, o almeno illumina. Dono celeste. Comunque celeste, da ovunque provenga» (ivi).

È una luce che ha questo di bello: «di giungere sull’essere umano come se scendesse a fargli visita, o gli venisse inviata. Ed è impossibile vedere una luce, o vedere in una certa luce, senza mettersi a cercare la sua fonte, e dire fonte è dire centro, unità. Così com’è impossibile non attendersi dalla luce una speciale vibrazione, una specie di canto» (Dire luce, 197).

L’inno giovanneo: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,4;9). Avvento è ricerca della luce che viene ancora, che viene sempre: “Avvento fammi luce”.

La luce che muove le altre luci

La luce che muove il giorno rischiarando la notte e fa brillare le altre luci ha un nome: Amore: «E la passione centrale della vita è l’amore, il grande fiume che tutte le raccoglie per condurle fino alla morte a cui aspirano. Solo l’amore è capace di addentrarsi nella morte, le altre passioni o sono cieche, o vedono di traverso; o si trattengono, calamitate, o si precipitano. Solo l’amore arriva a possedere una visione; solo l’amore è capace di prendere le distanze da tutto; solo lui può combattere, vincendole, con la speranza e la disperazione. L’amore anticipa la morte e fa morire di mille morti la vita di chi lo vive, facendole così conquistare, con la sua obbedienza, la libertà» (Dire luce, 197).

È allora solo nell’attenzione di amore che si scopre, celata sotto la pelle, la presenza della luce nostra e degli altri e il suo irradiarsi attraverso di essa. Un midrash che commenta l’episodio in cui Dio riveste i progenitori di un vestito di pelle all’uscita da Eden, rilevando la stretta corrispondenza delle parole “pelle” e “luce“, che in ebraico hanno un suono e grafia simili: “’Or”; “Ohr”, ricorda che l’uomo è stato creato con un vestito di luce, luminoso a immagine e somiglianza della luce inaccessibile e che nemmeno l’iniziale rifiuto di una relazione di amicizia con Dio ha potuto privarlo di quella luce, ma essa è stata solo nascosta, rivestita di pelle nell’attesa che possa di nuovo uscir fuori. La pelle rappresenta l’opacità del nostro corpo, ma anche l’oscurità del male che viene compiuto, che imprigiona la luce e le impedisce di uscir fuori.

Luce come attenzione di amore

Ma l’attenzione di amore – direbbe ancora la Zambrano – genera “un campo di chiarezza e di illuminazione” che porta alla luce del giorno e libera dalla cecità nostra e altrui. Significativo l’episodio narrato da Giovanni al capitolo 9 della guarigione del cieco nato, in cui egli guarirà anche la cecità dei discepoli, convinti che esista una stretta relazione tra le malattie e le colpe commesse:

«Camminando, Gesù passò accanto a un uomo che era cieco fin dalla nascita. I discepoli chiesero a Gesù: – Maestro, se quest’uomo è nato cieco, di chi è la colpa? Sua o dei suoi genitori? Gesù rispose: – Non ne hanno colpa né lui né i suoi genitori, ma è così perché in lui si possano manifestare le opere di Dio. Finché è giorno, io devo fare le opere del Padre che mi ha mandato. Poi verrà la notte, e allora nessuno può agire più. Mentre sono nel mondo, io sono la luce del mondo. Così disse Gesù, poi sputò in terra, fece un po’ di fango e lo mise sugli occhi del cieco. Poi gli disse: – Va’ a lavarti alla piscina di Siloe. Quello andò, si lavò e tornò indietro che ci vedeva» (9, 1-7).

L’attenzione d’amore traluce ad ogni suo sguardo: «è una tensione, uno sforzo e, com’è naturale, una fonte, forse la più grande, di stanchezza. Come campo di chiarezza, è prodotta dall’interesse che la persona prova per questo o quell’aspetto dell’inesauribile, immenso, illimitato campo della realtà. L’attenzione è come la luce che promana da un’intima combustione. La vita è, soprattutto, e dall’inizio alla fine, un’ininterrotta combustione. E, almeno nell’essere umano, questa combustione si trasforma in chiarezza e luminosità…

L’attenzione deve fare una specie di pulizia della mente e dell’animo. Deve vedersela con l’immaginazione; con l’immaginazione e con il sapere. Deve condurre il soggetto al limite dell’ignoranza, per non dire dell’innocenza. Non basta, dunque, concentrarsi, come si è soliti credere, perché l’attenzione, con la sua invisibile chiarezza, si produca.

L’attenzione ha da essere come un vetro perfettamente pulito che cessa di essere visibile per lasciar passare, nella sua diafanità, ciò che sta dall’altra parte. Se, quando ci occupiamo intensamente di qualcosa, lo facciamo proiettandovi sopra i nostri saperi e i nostri giudizi, le nostre immagini, si formerà una specie di spessa cappa che non permetterà a quella realtà di manifestarsi» (ivi, 186-187).

In lumine fidei

L’Avvento è il tempo per imparare a credere alla luce, non solo a dispetto delle tenebre, ma proprio in mezzo ad esse. L’attenzione d’amore è luce che guarisce dalla cecità, spogliando il cuore di sé e illuminando la lontananza che separa dalla brina luccicate sui tetti, il volto ancora nascosto del mondo avvenire.

L’attenzione di amore è pure quella scrittura che tocca la luce, risvegliando dentro la pagina bianca l’avvento di parole nuove; essa è come l’acqua prigioniera del gelo che diventa un giardino di fiori, il giardino segreto, dimora ospitale che trattiene le parole: esse stesse le luci d’Avvento. Il pensiero dell’Avvento, così la sua scrittura, è come il ghiaccio che vigila la luce lasciandosi attraversare come un corpo incorporeo e diafano dall’attesa di Colui che viene portando luce.

Guarisco spogliando il cuore
e seguendo in nudità le acque rotte,
sotto la luce il cielo è ripido.
La brina luccicante sul tetto
mi segnala quanto lontana io sia,
a filare un nuovo mondo.

Le dita che scrivono
sulla pagina toccano la luce.
Risvegliami.

Il ruscello ha fabbricato fiori di ghiaccio
piume lame di gelo figure
che ospitano il chiarore lunatico del cielo
pagina bianca dell’inverno.
È acceso il ghiaccio è ardente
l’acqua sogna dentro la sua fermezza
che conserva luce. Ti penso
penso al coraggio di restare in vita
nonostante. Penso ai giorni scortecciati
nell’improvvisazione di un fiato alla volta.
Ti penso come il ghiaccio vigila luce.
(Candiani, Pane del bosco; 50; 53; 75).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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