Salario minimo: la situazione nel mondo
Il salario minimo è stato introdotto in quasi tutti i 38 paesi OCSE e negli Stati Uniti[1] in quanto viene considerato uno strumento utile in quelle economie che hanno un problema di crescente disuguaglianza, con una quota estesa di persistenti bassi salari e di lavoro povero. L’Italia non fa eccezione in quanto ci sono circa 5,2 milioni di dipendenti (il 30-31% del totale) che guadagnano da 5 a 10 euro all’ora. Sono quelli dei settori commercio, pulizie, sicurezza, sport, ricreazione, arte, viaggi e servizi vari alle imprese, operai e apprendisti che in percentuale del 20-40% guadagnano meno di 1.200 euro netti al mese, pur lavorando molte ore. Nel dettaglio, Istat indica in 2.945.877 coloro che percepiscono meno di 9 euro all’ora (ma c’è chi ne prende anche 4 o 5), poi ci sono 2.248.308 che ne prendono tra 9 e 10 euro all’ora e infine altri 11,5 milioni che prendono più di 10 euro. Anche nel “ricco” Centro-Nord sono 1.970.150 lavoratori che prendono meno di 9 euro all’ora (15,9% del totale). Al Sud crescono al 25,1% (1.032.262; 17,2% è la media nazionale tra i dipendenti). L’alta inflazione ha ridotto tutti i salari nel 2022 (in media del 7,5%, -8,4% al Sud), dato record in Europa se si pensa che in Francia e UK sono cresciuti, in Usa sono calati di -2,3%, in Germania -3,2%. Rispetto al 2008 le paghe si sono ridotte al Sud del 12% (fonte Svimez). Le cause principali sono la minore occupazione nella manifattura e una crescita di occupati nei servizi e turismo (che pagano meno) e usano di più part-time e lavoro stagionale (al Sud gli occupati a termine sono il 22,9%).
In alcuni Paesi ci si è opposti (pochi per la verità) perché più alti salari minimi scoraggerebbero alcune assunzioni e favorirebbero il lavoro nero, ma l’esperienza di 30 paesi nell’Ocse su 35 mostra il contrario, che salari minimi ragionevoli non riducono affatto l’occupazione, anzi. In Usa il salario minimo è 7,25 dollari per ora (8 euro), un livello molto basso specie per i lavoratori delle aree urbane. Per cui alcuni Stati (Massachusetts,…) lo hanno alzato fino a 14,25 dollari (se non si hanno altri sussidi pubblici). L’evidenza mostra piuttosto che il salario minimo riduce le disuguaglianze aiutando quel 20-25% circa di lavoro povero che esiste in quasi tutti i paesi occidentali (e sta crescendo). Ovviamente il salario minimo non è la panacea di tutti i mali e andrebbe accompagnato con altri provvedimenti, ma è comunque un tassello utile a tutela del lavoro povero.
Il salario minimo legale non peggiora l’occupazione
David Card, Joshua Angrist, Guido Imbens sono stati insigniti del premio Nobel per l’economia 2021 in quanto i loro studi “hanno fornito nuove informazioni sulle dinamiche del mercato del lavoro e le relazioni causali”. Gli studi di Card sono di grande attualità, nonostante risalgano ai primi anni ’90, quando dimostrò che l’aumento del salario minimo nei ristoranti fast food del New Jersey da 4,25 dollari a 5,05 all’ora non solo non provocò una riduzione di occupati in quel settore ma neppure un trasferimento dei costi sui prezzi dei clienti, come sostiene da sempre l’economia neo-liberista che va per la maggiore. Gli studi in America sono per alcuni versi molto interessanti, in quanto c’è una situazione del tutto speciale dovuta alla presenza di 50 Stati con regole spesso diverse ma con condizioni socio-economiche comparabili e che sono quindi ideali per fare confronti. Gli effetti dell’aumento del salario minimo in New Jersey videro (contrariamente alle aspettative) un incremento del 13% sull’occupazione, mentre nulla avvenne nel vicino Stato della Pennsylvania che non aveva effettuato l’aumento di salario minimo. Studi analoghi in altri contesti confermarono cose simili. Come mai ciò può accadere? Qualcosa di simile avvenne anche in Italia negli anni ’70 quando l’aumento significativo dei salari produsse un aumento dell’occupazione a causa di un vincolo (ragionevole) posto dai sindacati alle imprese di non poter contare su bassi costi salariali e doversi “dare da fare”, avviando quasi sempre un’innovazione organizzativa e dei macchinari che portò ad un aumento della produttività del lavoro nelle singole imprese e ad un aumento delle esportazioni e, di conseguenza, anche dell’occupazione. Una strategia “win-win” che non si è più ripetuta negli anni successivi. E’ comprensibile che i datori di lavoro resistano ad aumenti in quanto con bassi costi salariali “il business è più remunerativo e semplice”, ma da sempre il valore delle imprese è dato soprattutto dai lavoratori (il cosiddetto capitale umano) e quando un’impresa crea un clima favorevole è lei per prima a trarne vantaggio. Lo sanno bene le piccole imprese che si litigano gli operai migliori e le grandi che glieli rubano.
I sindacati italiani per anni hanno resistito ad una legge sul salario minimo perché non vogliono perdere il “potere contrattuale” che tramite il salario è in grado di mobilitare i lavoratori ed ottenere altre rivendicazioni, ben al di là del salario base. Tuttavia oggi ci troviamo con quasi mille contratti nazionali (molti “pirata”) e 3 milioni di lavoratori (2 al Nord e 1 al Sud) che hanno tariffe salariali molto al di sotto di minimi contrattuali decenti (anche 5 euro con contratti firmati) e quasi un terzo di chi ha avuto un lavoro nell’ultimo anno ha avuto un salario inferiore alla linea di povertà Istat (vedi Michele Bavaro su lavoce.info). Per questo sono in molti a chiedere che anche in Italia ci sia una legge per un salario minimo decente com’è in tutta Europa (fissato in genere al 40-50% del salario mediano).
Oltre all’Italia in Europa solo Austria, Svezia, Finlandia, Danimarca non hanno il salario minimo, e di recente anche un paese povero come Cipro l’ha introdotto. In Austria e nei tre Paesi nordici ci sono già buoni minimi salariali in tutti i settori e per questo non è stato ancora introdotto. Significativo è che anche il conservatore Boris Johnson abbia proposto di aumentare il salario minimo inglese da 8,55 a 9,05 sterline (11 euro) che comporterebbe circa 900 sterline annue di aumento per i salari bassi.
La lotta contro i contratti “pirata”
Il problema in Italia è anzitutto per quei lavoratori che sono pagati 4-5 euro all’ora con contratti “pirata”. Nel Sud il costo della vita è del 20-30% inferiore a quello del Nord e quindi, in presenza di un minimo nazionale, potranno essere poi le singole regioni del Nord ad aumentare il minimo. La questione impatta anche col Reddito di Cittadinanza, che al Sud è stato fissato (come al Nord) ad un livello alto (550 euro circa), per cui l’incentivo a lavorare in regola diminuisce, diversamente dal precedente Reddito di Inclusione (che prevedeva un sussidio minore – circa 350 euro-, ma, intelligentemente, se il povero trovava un lavoro manteneva 2/3 del sussidio). Chi invece trova lavoro col Reddito di Cittadinanza perde l’80% del sussidio e ciò è un disincentivo a lavorare e a prendere solo il sussidio, arrotondandolo poi con 200-300 euro in nero al mese che è più facile da ottenere al Sud e che implica spesso un minor numero di ore di lavoro di un compenso regolare (che però porta più dignità e anche entrate per lo Stato). Questa era la riforma da farsi: invece il nuovo Governo ha proceduto semplicemente togliendo il RdC a circa 800mila persone single che potenzialmente possono lavorare (e per un massimo di 8 mesi anziché 18), al fine di risparmiare 3 miliardi sugli 8 di spesa pubblica annua per questa misura.
[1] Vedi www.dol.gov/agencies/whd/minimum-wage/state. Nel gennaio 2023 variano da 8,5 dollari a Porto Rico a 16,5 nella città di Washington. In media sono su 12-13-14-15 dollari.
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Andrea Gandini
Commenti (1)
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Molto interessante. È possibile dire anche che nel momento in cui il reddito salariato aumenta, diminuisce la necessità di intervento statale di sostegno alla povertà e che quindi, oltre al beneficio all’economia portato dal maggiore potere di acquisto, si realizza anche la diminuzione delle spese statali che vengono trasferite, opportunamente, a chi fa profitto?