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Profondo Porpora

Sì, hai ragione tu Ian, forse non siamo più bambini, ma il nostro tempo è ancora lì. Ci siamo incontrati che eravamo pischelli – beh, voi eravate già da tanto profondamente porpora, nel mare dell’hard rock, che avete contribuito a riempire.

Gli anni settanta avevano appena lasciato il posto agli ottanta. La casa del centro dove vi conobbi aveva un lungo porticato comune, con colonne tra l’antico e il vecchio sulla sinistra, a piano terra c’era l’entrata, l’odore di sugo e polpette era costante. Di fronte a noi, io e Chiaro, si stagliava una cassettiera da cui Guido, all’insaputa del fratello maggiore Gaetano, faceva comparire il profumo Paco Rabanne e ce ne offriva generose spruzzate.

Stavamo camminando a passi spediti verso l’adolescenza e lì in una stanza attigua ci incontrammo.

Made in Japan, una BASF C90, dalla copertina rovesciata, dove a penna scrivevamo la sequenza delle canzoni.

Play, rec e silenzio assoluto.

A dire il vero assieme a voi Gaeta ci registrò pure l’appena uscito For thouse about to Rock, dei canguri elettrici, un’altra botta da cui non ci siamo più ripresi.

Lì, in quei giorni di fine inverno, iniziò tutto: la nostra musica, le chitarre laceranti, la batteria che soffre sotto mazzate che distruggerebbero un tempio, poi la voce, profonda e acuta, alti e bassi, una follia che ci prende collettivamente.

Qualche anno dopo quel live giapponese doppio me lo comprai da Pistelli & Bartolucci per la folle cifra di diecimila lire, una doppia cassetta che portai a fine vita per le migliaia di volte che mi fece compagnia, in macchina, in campeggio, prima delle partite.

Poi in un lampo passano quarantatre anni. Come è possibile? Dove sono andati quei pischelli, cosa c’è stato nel mezzo?

La vita, la strada, il percorso di ognuno di noi.

Da una cena poi nasce il resto, una battuta, uno scherzo e ci ritroviamo con i biglietti del concerto, io, Chiaro, Pavo e Davide.

E siamo là tra gli sbirri e l’entrata (cit.).

Il questore, i graduati, installano transenne, ci passano davanti e ci ritroviamo tra i cancelli del Parco Ducale e il pubblico, credo ci abbiano considerato dello staff. Ci beviamo un birrone e un ottimo panino con la bresaola di tacchino offerti da Pavo, il nostro guru della musica rock.

Affluenza tranquilla, pausa cessi come da prassi, maglietta per certificare l’evento.

Alle 20.30 una band italiana scalda l’attesa. Sono bravi, ci sanno fare. E’ un concerto quasi intimista, nessuna folla oceanica per i creatori dell’hard rock, coloro che assieme agli Zeppelin e ad Ozzy, dalla creta hanno plasmato una chitarra cattiva, aggressiva, mordente e da lì è nato un mondo. Il nostro.

Entra la storia, primo accordo e la Highway Star si apre al flusso delle ruvide note dei Deep Purple.

Ian, mi è sembrato che i tuoi settantasette anni tu li stia portando alla grande. Le canzoni le hai scelte tu, o bene o niente, inutile cercare di arrivare dove non si arriva, inutile gracchiare dove prima le tue corde vocali combattevano con quelle della chitarra di Blackmore.

La batteria non è più il mulo del passato ma tiene il tempo, e col basso tiene tutti sulla barca. Poi le tastiere, nel ricordo di Lord, nessun rimpianto, poca o nulla la differenza. La sontuosa chitarra, che ricorda i Pink Floyd, più che i vecchi Deep Purple.

E così in un amen è volata una bella serata tra musica, amicizia e birra.

L’elisir dell’eterna giovinezza? Forse non esiste, ma questo non impedisce di cercarlo tra il suono di un amplificatore, il fruscio dei ricordi e il gusto amaro di una birra.

Fredda.

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Cristiano Mazzoni

Cristiano Mazzoni è nato in una borgata di Ferrara, nell’autunno caldo del 1969. Ha scritto qualche libro ma non è scrittore, compone parole in colonna ma non è poeta, collabora con alcune testate ma non è giornalista. E’ impiegato metalmeccanico e tifoso della Spal.

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