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Sabato 22 ottobre un corteo molto partecipato – i numeri, al solito, si sprecano, ma non si sbaglia di molto a dire almeno 20.000 persone – ha attraversato le strade e la tangenziale di Bologna per dire che occorre, in generale e anche nella nostra regione, cambiare radicalmente le politiche ambientali e quelle del lavoro.

La manifestazione, indetta inizialmente dal collettivo di fabbrica GKN, dal Comitato Nopassante di Bologna, dai Fridays for Future e dalla Rete sovranità alimentare, ha visto coagularsi attorno ad essa un insieme di comitati, movimenti e associazioni sociali – dal comitato contro il rigassificatore a Ravenna alla Rete per l’emergenza climatica e ambientale, dai collettivi studenteschi ai sindacati di base, solo per citarne alcuni tra i tanti. Non mi pare, però, si possa semplicemente derubricare quell’appuntamento sostenendo, come ha avuto modo di dire il sindaco di Bologna Lepore, che “quella di sabato era la prima grande manifestazione nazionale dove si ritrovavano tutte le aree radicali e antagoniste dopo la nascita del governo Meloni….persone da tutta Italia si sono ritrovate a Bologna per motivi politici nazionali”.

Capisco che il sindaco di Bologna faccia di tutto per non sentirsi chiamato in causa, ma, così facendo, non coglie uno dei punti di novità che sono emersi con forza dalla manifestazione del 22 ottobre: la consapevolezza diffusa che il modello di sviluppo, anche della nostra regione, è giunto ad un punto di crisi molto seria, che si manifesta, prima di tutto, nell’insostenibilità delle politiche ambientali praticate e nella regressione dei diritti del lavoro e che, dunque, occorre misurarsi con il fatto di pensare ad un altro e alternativo modello sociale e produttivo.

La buona riuscita della manifestazione fa sorgere almeno altri due elementi di riflessione: il primo è che si è prodotta una convergenza di soggetti e movimenti sociali diversi tra loro che, dopo anni di frammentazione e, per certi versi, di autoreferenzialità, hanno iniziato a ritrovarsi e connettersi. Il secondo è che probabilmente siamo di fronte ad una ripresa della conflittualità e della mobilitazione sociale, dopo un silenzio dovuto anche alla sospensione spazio- temporale e sociale della pandemia.

Lo conferma la buona risposta della settimana precedente alla manifestazione promossa ad Ancona ad un mese dall’alluvione, oppure la partecipazione alle iniziative per la pace, che culmineranno il 5 novembre in una giornata che si preannuncia importante e partecipata.


Certo, questi sono ancora processi tutt’altro che compiuti: c’è, anzi, la necessità di lavorare perché essi si consolidino, ma non c’è dubbio che segnalano una potenzialità presente e da cogliere. Anche per quanto riguarda l’iniziativa in regione, dove occorre rafforzare i contenuti e le mobilitazioni dei movimenti, e fare in modo che il processo di convergenza iniziato prosegua con uno sguardo ampio e inclusivo.

Per non scadere nell’astrattezza, provo ad esemplificare ragionando sul rapporto tra mercato e beni comuni, e come questi devono essere affrancati dal suo dominio e dalle sue logiche. Prendo spunto da un articolo apparso su queste pagine a firma di Andrea Gandini (leggi qui) decisamente interessante nell’analisi, meno condivisibile (a mio avviso) nelle conclusioni.
Interessante nell’analisi, perché viene bene evidenziato come lasciare la gestione dei servizi pubblici che garantiscono beni comuni fondamentali, dal gas all’energia elettrica, dall’acqua al ciclo dei rifiuti, ad aziende di natura privatistica, che si muovono cioè con un orientamento alla massimizzazione dei profitti, come Hera, multiutlity quotata in Borsa, significa promuovere gli interessi degli azionisti (privati e pubblici) e del management, non certo dei cittadini.

A cui però si può ovviare non con il fatto di fare entrare nei Consigli di Amministrazione rappresentanze dei lavoratori e dei cittadini, cosa “incompatibile” con la natura privatistica della proprietà, a meno che ciò non si riduca ad un elemento marginale e subalterno. Occorre, invece, aggredire la questione alle radici, affrontando il nodo della proprietà e quindi facendo la scelta della ripubblicizzazione di queste aziende, non riducendola solo ad un cambio di natura giuridica, ma, anzi, prevedendo appositamente un ruolo fondamentale per l’assunzione delle decisioni di fondo ai lavoratori e ai cittadini e alle loro rappresentanze.

Il tema è di attualità anche in Regione e a Ferrara. Per quanto riguarda il livello regionale, sono state depositate da RECA (Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale) e da Legambiente 4 proposte di legge di iniziativa popolare regionale su rilevanti temi ambientali con più di 7000 firme, tra cui una che riguarda l’incentivazione alla pubblicizzazione delle aziende che gestiscono il servizio idrico e quello dei rifiuti, che dovrebbero prossimamente iniziare l’iter di discussione nell’Assemblea regionale.

A Ferrara è aperta da tempo, sin dalla scadenza della concessione a Hera avvenuta alla fine del 2017, la discussione sul soggetto cui dovrà essere assegnata la gestione del servizio dei rifiuti per il Comune.

Poi, in tempi non biblici, la stessa questione riguarderà la gestione del servizio idrico. Per quanto riguarda il servizio di gestione dei rifiuti, dopo una battaglia che è partita già nel 2018, l’Università di Ferrara è impegnata, su indicazione dell’Amministrazione Comunale, a studiare un piano di fattibilità per la gestione pubblica del servizio stesso.

Discuteremo i suoi esiti, ma sin d’ora è possibile avere un’opinione su quali sono gli interessi perseguiti nel caso della gestione di tipo privatistico o di tipo pubblico-partecipato: basti pensare che a Hera, nella gestione in proroga dei rifiuti a Ferrara, viene erogato un profitto garantito, la cosiddetta remunerazione del capitale “investito”, pari inizialmente al 3% del capitale ed ora innalzato al 6%, che è passata da circa 400.000 € nel 2020 a circa 700.000 € nel 2021 e nel 2022. Inoltre, viene riconosciuto al soggetto gestore (e non agli utenti) una quota relativa al raggiungimento di risultati positivi relativi alla raccolta differenziata.

Ecco, quest’esempio può ben rappresentare il percorso che si tratta di compiere per dare continuità e forza alla mobilitazione che si è espressa con la manifestazione del 22 ottobre.

Si tratta, cioè, contemporaneamente, di sviluppare vertenze nei territori e a livello regionale, che possano essere riconosciute dai vari soggetti e movimenti sociali interessati al processo di convergenza, e di unificarle progressivamente in un orizzonte comune, capace di proporre un’alternativa di fondo alle scelte in materia ambientale e del lavoro.
Sapendo che, con quest’approccio, parliamo di un intero modello sociale e produttivo che va messo in discussione: operazione certamente difficile, ma, in realtà, l’unica possibile e realistica se vogliamo guardare e progettare il futuro.

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

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