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“Aventurar la vida”

Una solennità tutta raccolta, nascosta, feriale, quella di santa Teresa di Gesù [Qui] nella trasverberazione del suo cuore, celebrata con le sorelle Carmelitane venerdì 26 agosto nella chiesa a lei dedicata in via Borgovado 19.

Solenne il canto, polifonia di un’intima gioia che irradiava, non più trattenuta, dalle grate abbracciando l’assemblea liturgica e oltre, disperdendosi benefica per le vie del borgo.

Il monastero è del 1712. Una vedova di origini reggiane, trasferitasi a Ferrara e desiderosa di vestire l’abito delle figlie di santa Teresa, decise di donare la sua abitazione per la fondazione. La chiesa invece si iniziò a costruirla solo nel 1781 e fu benedetta e aperta al culto il 24 agosto 1788.

La chiesa si raggiunge salendo sia per chi viene da XX Settembre contromano, sia per chi percorre Borgovado da Santa Maria in Vado. Posta sul colmo di quello che era l’argine di via Ripagrande, mi fa pensare ogni volta alla salita al monte Carmelo [Qui].

È a pianta circolare, piccola e raccolta, in stile barocchetto, impreziosita soprattutto dalla pala dell’altare maggiore (attribuita al ferrarese Francesco Pellegrini), che raffigura l’apparizione della Madonna e di san Giuseppe a Teresa. La forma di un cuore trafitto è visibile nel centro della cupola della chiesa e sopra l’altare maggiore.

Con la parola ‘trasverberazione’ si vuole ricordare un episodio della vita di Teresa descritto da lei stessa nel capitolo 29 del Libro della Vita e reso famoso dallo scultore Gian Lorenzo Bernini [Qui] nello splendido gruppo marmoreo Estasi di santa Teresa (1652), conservato a Roma nella Cappella Cornaro della chiesa di santa Maria della Vittoria.

Teresa narra di un serafino che le trafisse ripetutamente il cuore con un dardo infuocato: «lasciandomi ardente di grande amor di Dio e piena di desiderio di contagiare gli altri di questo amore».

Una frase che – volendo − esprime anche oggi il paradigma di vita delle sorelle carmelitane. La loro vocazione, le loro esistenze nascoste come radici sprofondate in quella terra buona che è l’umanità di Gesù. Dalla quale esse poi si avventurano, percorrendo la via dell’orazione, per portare la linfa del suo vangelo alle nostre comunità, alla città intera.

Dicono di loro stesse: «anche noi, come piccolo anello di una catena solidale con ogni uomo e ogni donna accogliamo la sfida della nostra santa madre Teresa di Gesù di «avventurare la vita», consapevoli che − come lei stessa scrive in una sua poesia richiamando il Vangelo − «non c’è chi la custodisca meglio di chi la dà per persa».

Che immagine potente: “avventurare la vita”, ripreso da quell’“avventurarmi” proferito per prima da Teresa.

Aventurar” equivale a essere protesi, rischiarsi in un’impresa, esporsi a ciò che viene, mettersi in gioco, osare fino in fondo.

Il cammino spirituale − di perfezione lo chiama lei scrivendo alle sorelle – e ne La Vida dice: «Sta tutto ad avventurare la vita (Tudo isto faz aventurar la vida). Per conto mio, bramo di averla già persa: avventurarsi, (aventurar-me) sarebbe un comprar molto a poco prezzo. No, non è più possibile vivere vedendo con i propri occhi la cecità in cui si è, e l’illusione che c’inganna» (Vida, 21, 4).

Nella trasverberazione del suo cuore ci è offerta un’immagine viva del mistero pasquale; di quel rischiarsi ad amare “costi quel che costi”; un avventurarsi e perdersi nella vita del Crocifisso risorto e osare attraversare il vado che porta dal timore all’amore, dal perdersi al ritrovare se stessi, da sé agli altri.

‘Verberare’ significa ‘colpire’. E trasverberare equivale, di conseguenza, a ‘colpire attraversando’, andando al di là così da restare uniti, innestati l’uno all’altro per ferita d’amore. Cauterio, la chiama Giovanni della Croce [Qui]: “una bruciatura di purificazione amorosa”, una ferita che guarisce.

Ma purificazione da che cosa? Guarigione da quale male? Dal timore – risponde Teresa − quello che afferra chi avventura la sua vita con il vangelo. «Nada te turbe, nada te spante (spaventi), Sólo Dios basta».

Sono parole di Teresa diventante un canto liturgico molto popolare, non solo nelle parrocchie. Parole che si congiungono a un’altra espressione di Teresa nella quale sintetizza la sua più profonda esperienza mistica: «scomparve ogni timore, venne, col godimento, la pace, e io rimasi in estasi».

Così anch’io mi sono avventurato nella sua Vida, come un bracconiere, alla ricerca di risonanze, e approfondimenti, bramoso anch’io di questo cammino dello spirito che scaccia il timore:

«Mentre, dunque, ero in così grande angoscia (fino allora non avevo cominciato ad avere nessuna visione), bastarono queste sole parole per dissiparla e acquietarmi del tutto: “Non aver paura, figlia mia, sono io e non ti abbandonerò, non temere”».

Anche quando parla del timore di Dio, Teresa lo distingue dalla paura umana, servile, perché il timore di Dio è, a differenza di quello terreno, intessuto d’amore:

«Tutti questi segni del timore di Dio mi vennero dall’orazione, e per la maggior parte erano intessuti d’amore, perché non mi si presentava mai il pensiero del castigo… Nell’orazione che è rapporto di amicizia con il Signore, un trovarsi frequentemente da soli a soli con chi sappiamo che ci ama. Qui non c’è nulla da temere, ma tutto da desiderare».

Nel capitolo 26, Teresa racconta cose che le sono accadute e che, facendole deporre ogni timore, l’hanno convinta che era lo spirito buono a parlarle (aveva a che fare con confessori ottusi o timorosi, l’inquisizione non scherzava allora).

«Una sola sua rassicurante parola bastava a lasciarmi tranquilla e lieta come al solito, senza alcun timore. Mi sembrava che Gesù Cristo mi camminasse sempre a fianco… E se pure, a volte, temevo ancora per tutto quello che mi dicevano, il timore mi durava poco, perché il Signore mi rassicurava: la via del timore non è fatta per la mia anima».

Per Teresa il “Nada te turbe” scaturisce dal non pensarsi da soli, dal non avventurarsi da soli: un “Cercati in Me” e “CercaMi in te” quale frutto di un’intima amicizia e compagnia amorosa.

“Aventurar la vida” è allora non rinunciare ad arrischiare il proprio amore. Lo stesso amore che indusse il Figlio di Dio a non sottrarsi all’avventura umana della fraternità fino alla croce, segno dell’amore più grande che è dare la vita, divenendo così per tutti il Figlio dell’uomo.

Sognando il paradiso

Uno strano sogno di molti anni fa − scrivendo di queste cose − mi è tornato alla memoria. Ricordo che la sera prima avevo visto con alcuni ragazzi della parrocchia la fiction su san Filippo Neri con Gigi Proietti, Preferisco il Paradiso.

Sognai dunque che ero in chiesa, dopo l’omelia invece di continuare la messa andai verso la sacrestia, la gente mi chiamava indietro, ma io diritto senza voltarmi, aprii la porta e d’improvviso mi trovai in via Porta san Pietro, che è come dire la porta del Paradiso.

Mentre camminavo, un mormorio fastidioso di gente che sembrava conoscermi da vicino mi additava: “eccolo il sognatore, quello che predicava la salvezza a buon mercato, quello che diceva alla gente di non temere Dio, che insegnava a non avere paura di lui. Adesso vedremo come andrà a finire quando incontrerà san Pietro”.

Queste voci cominciarono a turbarmi e presi ad avere timore. Ma ripetevo a me stesso e a loro: “non ho paura, siamo amici”.

Ma giunto da san Pietro, prima mi impensierii, e poi mi spaventai solo a guardare la sua faccia, specie quando mi interpellò dicendo: “Oh guarda un poco chi c’è, chi è arrivato, mettiti là in disparte che adesso vediamo cosa fare”.

Non che mi sentissi degno dei primi posti, ma su un posticino in fondo, di fianco alla porta ci contavo, memore di quando mia madre si auspicava di poter varcare quella porta almeno con il dito mignolo, così da essere poi dal Signore tirata dentro.

Che ci fossero dei problemi e degli intoppi anche lì mi inquietò ancora di più.

Giunse il momento in cui san Pietro, dopo aver fatto scorrere velocemente le mie omelie, mi chiamò e fece sfilare davanti a me tutti i patriarchi e i profeti, che avevano in un modo o nell’altro annunciato il santo e terribile timore di Dio.

Solo al vederli mettevano paura, figuriamoci quando cominciarono a ripetere i loro scritti e le loro profezie ad alta voce. E fu allora che mi assalì il dubbio e poi fui preso dalla certezza di aver sbagliato o per lo meno di aver tralasciato qualcosa di importante.

Era proprio grave non avere ricordato il timore di Dio come avrei dovuto. Avevo così disorientato la gente che mi ascoltava, e forse, a forza di predicare un Dio di cui non bisognava avere paura, avevo aperto la strada, per molti, alla leggerezza, alla faciloneria, alla salvezza a buon mercato.

Intanto continuavano con insistenza, uno dopo l’altro, coloro che avevano annunciato il timore di Dio. Sino a che decisi di non aspettare la fine: oramai ero sicuro del verdetto; ero solo dispiaciuto, anzi mortificato per coloro che avevano creduto alle mie parole e forse non sarebbero entrai in paradiso. Mi girai di 180 gradi e feci per tornare indietro, chissà dove, senza più speranza.

Inaspettatamente, avevo fatto pochi passi, mi sentii chiamare con insistente amorevolezza e la voce ripeteva anche “un poco di pazienza”. Mi voltai e vidi venirmi incontro sorridente una donna, con una penna in mano e nell’altra un libro, indossava un mantello candidissimo.

Aveva qualcosa di familiare, di molto, molto familiare; ma ancora faticavo a ricordare, come quando, nei sogni, provi a parlare e non escono le parole, i nomi. “Ma sì, sì era proprio lei”, dissi poco dopo. Così mi sentii rincuorare come da una ferita dolorosa che rimarginava dentro un altro cuore.

Era proprio lei, Teresa di Gesù, la santa madre – così la chiamano le sorelle – quella che tutti i giorni vedevo all’angolo tra via Coperta e via Borgovado e salutavo con lo sguardo, alzando gli occhi verso di lei. La sua esile e piccola immagine in pietra bianca è posta infatti in una nicchia sul muro di cinta del suo monastero.

Teresa di Gesù mi disse: “aspetta un momento ancora, non avere fretta, e nemmeno timore, lasciali finire”. Terminata la fila degli accusatori, mi accorsi che alle spalle di quell’improvvisata avvocatessa d’ufficio cominciavano a venire i testimoni della difesa. Mi meravigliai: era tutta gente importante, che conta lassù.

Teresa aveva chiamato a testimoniare davanti a san Pietro per primo l’arcangelo Gabriele che ripeté il suo annuncio a Maria scandendo bene le parole: “non temere Maria, hai trovato grazia”.

Poi gli angeli apparsi ai pastori a Betlemme, e quello apparso in sogno a Giuseppe per tre volte. Ma poi furono chiamati a deporre gli evangelisti che in diversi episodi avevano riportato le parole di Gesù: “Non temere continua solo ad avere fede”.

E ancora i due messaggeri innominati in bianche vesti che erano seduti sul sepolcro vuoto di Gesù il mattino di Pasqua; essi avevano rincuorato con gioia grande le donne mortalmente spaurite: “Non temete voi, non è qui, è risorto”. Sarebbero bastati quei due a far spalancare le porte del paradiso, così come spalancarono l’ingresso sigillato del sepolcro dalla pesante pietra.

Ma Teresa non era contenta, così si presentò il serafino della trasverberazione e, da ultimo, maestoso e umile insieme, accompagnato da un’aquila, proprio lui, Giovanni l’evangelista, il teologo a ripetere con insistenza le stesse parole di Gesù ai suoi amici:

Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore vado a preparavi un posto. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore, vi lascio la mia pace, la mia pace io vi do”.

Alla fine Teresa, per evitarmi l’eventualità della condizionale, strabiliò tutti. Fece giungere l’intero coro angelico – ed era grandissima, innumerabile schiera – che intonò: “Nada te turbe. Nada te spanta Quien a Dios tiene, nada le falte. Solo Dio basta”.

Vidi allora san Pietro rallegrarsi così tanto, come quella volta alla pesca miracolosa e affrettarsi ad aprirmi.

Una luce rifulse non appena dischiuse la porta. Fu come quando nel cielo le nubi nascondono il sole, ma non riescono a trattenerne l’impeto, i loro bordi diventano luccicanti, merletti dorati e lo splendore e la gloria dei raggi solari sprizza da tutte le parti schiarendo il cielo a fasce, sino a formare una raggera che scende fino a terra.

Provai a fare un passo in avanti, a sporgere la testa, ma come nei sogni, tentavo di camminare, ma non riuscivo a muovermi; d’improvviso mutò la scena, inciampai in un gradino, ma era quello della sacrestia e mi svegliai.

Che delusione, c’ero quasi. Mi sentii allora come un ladro di notte che fugge con la refurtiva nel sacco e nella fuga perde dal fondo bucato tutta la refurtiva, restando a mani vuote.

Era presto, quella mattina, ancora buio e il lampione della strada illuminava debolmente l’icona della Madre di Dio di Kazan nel luogo della preghiera. Accesi un lume, aprii il breviario e cominciai la preghiera delle lodi. Ma il pensiero andava al sogno appena fatto e mi dicevo che forse era il caso di fare marcia indietro.

Tanto che la domenica dopo, anche se ci fosse stata la parabola della festa e del banchetto con il vitello grasso per il figlio ritrovato, avrei parlato solo del timore di Dio. Dopo tutto, era solo un sogno: chi mi avrebbe assicurato che sarebbe andata proprio così?

Ero in questi pensieri quando incominciai il canto del Benedictus, l’inno di Zaccaria. Leggevo, ma ero distratto continuamente dal pensiero: “chissà forse ci sono altri testi oltre a quelli ricordati da Teresa e dovevo proprio cercarli”.

Così, dopo ogni distrazione, tornavo sulle parole dell’inno e con mia sorpresa, in uno di quei ritorni, mi fermai di colpo e rilessi incredulo una, due, tre volte il versetto di mezzo e mi venne da esultare e ringraziare, diceva:

«Così Egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni».

Proprio in quel momento, i rintocchi della campana del Carmelo chiamavano alla messa.

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Cover: Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa (commons.wikimedia.org)

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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