Dall’ultimo libro che ho letto insieme al gruppo poggese che fa capo alla Biblioteca Comunale, Dell’amore e di altri demoni di Gabriel Garcia Marquez [Qui], mi è rimasta impressa un’immagine. Sullo sfondo della storia narrata c’è il Settecento in Colombia ai tempi della Inquisizione spagnola, nonché dello schiavismo e di altre piaghe sociali come povertà, ignoranza e superstizione.
L’immagine che ho trattenuto è quella della protagonista, la bellissima Sierva Maria de Todos los Angeles, che viene ritenuta malata di rabbia in seguito al morso di un cane e poi vittima del demonio. Sul suo corpo, accanto alle collane luccicanti donatele nell’infanzia dagli schiavi negri a cui l’hanno lasciata i genitori, si aggiungono le piaghe inflitte dalle monache, alle quali il padre la affida nella adolescenza. Soprattutto la badessa la ritiene una creatura di Satana e non le risparmia alcun tipo di vessazione. Sul suo corpo martoriato dagli esorcismi continuano intanto a far bella mostra le inseparabili collane, fino all’ultimo istante di vita.
La coppia di parole che mi è rimasta in testa, “piaghe e lustrini”, riprende d’altra parte lo stesso ossimoro, celeberrimo, che Manzoni [Qui] usa quando definisce il Seicento in Italia come un secolo “superbo e cencioso” e lo mette come sfondo vivo del suo romanzo storico.
Ce ne dà prova nei capitoli iniziali dei Promessi sposi, nel momento in cui ci introduce insieme a Renzo in cerca di giustizia nello studio del dottor Azzeccagarbugli. Lo spazio è quello di uno “stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi”. L’avvocato, da parte sua, quando accoglie Renzo è “coperto d’una toga ormai consunta”, che usa come veste da camera, avvolto dal disfacimento di mobili e oggetti.
La prima descrizione d’interno del romanzo, con i segni di un illustre passato e le prove di una inesorabile decadenza, offre un quadro simbolico del secolo XVII nel Milanese, al tempo del Governatorato degli Spagnoli. Il quadro rimanda poi al tempo in cui Manzoni scrive, la prima metà del secolo XIX, quando il Regno Lombardo Veneto era sotto il dominio degli Austriaci, e fermiamoci qui, altrimenti rischiamo di allargare il pessimismo del nostro autore a tutta quanta la Storia.
Esco dalla letteratura per entrare nella vita quotidiana con altri ossimori che di questi tempi mi hanno colpita. Un incontro di mercoledì al mercato del mio paese.
Non ci siamo viste durante i mesi dell’inverno e ora i nostri discorsi cadono come pietre su disturbi e malattie. La mia interlocutrice non è nemmeno delle più impegnative, nel senso che si profonde in descrizioni meticolose e non trascura di impreziosire la sua esposizione con qualche termine medico. Tuttavia. Contrariamente a quanto mi succede in casi come questo, mi lascia parlare un po’. Dico a mia volta i disturbi che mi affliggono e sono riassuntiva il più possibile (“tienila corta” è l’imperativo categorico che mi ripeto ogni volta). Non solo: non punta nemmeno al rialzo, cercando di dimostrare che i suoi malanni sono peggiori dei miei. Un sacco di gente ci tiene a risultare vincitrice nella gravità delle malattie, deve essere la aspirazione a vincere comunque in qualcosa.
Ma riprendo a ricostruire l’incontro, manca la parte finale. Arrivata a nominare il cortisone che ha dovuto assumere per non ricordo più quanti giorni, la mia interlocutrice scosta le collane che porta al collo e allarga la scollatura del suo abito leggero, così che io possa vedere sotto i lustrini la pelle maculata da foruncoli di varie gradazioni di un robusto rosso violaceo. Le piaghe, appunto.
Speriamo di rivederci presto, e con questo auspicio che è puro suono, ci lasciamo.
Una telefonata alla parente lontana. È una delle tante intercorse tra noi nelle ultime settimane. Da queste conversazioni lei fa uscire il rapporto affettuoso e insieme tormentato col marito, compagno di vita da mezzo secolo che ora è preda di una fissazione tragicomica.
È malato solo lui, si sente perseguitato dalla sorte malevola e interrompe solo per una sera il quotidiano piagnisteo, quando la sua squadra del cuore porta finalmente a casa lo scudetto. Una vistosa bandiera rossonera sventola allora sul balcone di casa.
Poi la vela si abbassa e torna la bonaccia del lunedì. Conosco tutti i dettagli, perché lo sfogo che mi investe al telefono è di quelli seri, di quelli che intrattengono l’ascoltatore “lunghettamente anzi che no” (è sempre il Manzoni a prestarmi le parole: lo dice di Renzo che alla fine delle sue peripezie amava raccontare “la sua storia molto per minuto… (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più di una volta)”.
Nello spazio di ogni giorno ci muoviamo tutti noi, marchiati dal medesimo stigma. Ognuno con la propria particolarissima reazione al contrasto insanabile che si porta addosso. Possono essere più o meno vistosi i lustrini, più o meno gravi le piaghe. Vengono dalla salute incerta, da dolori sentimentali, dalla incertezza del vivere e basta.
Rientro nella letteratura per raggiungere l’ossimoro estremo, quello di un uomo che porta nel proprio nome il dualismo tra l’essere vivo e l’essere morto. Racconta la sua storia il capolavoro di Pirandello [Qui], Il fu Mattia Pascal.
Storia nota, in cui il protagonista per un caso fortuito ha potuto rinunciare alla sua vita matrimoniale tribolata per darsi un nome e una identità nuovi. Impossibilitato a condurre anche questa seconda vita lontano dalle convenzioni sociali, si ritrova a far visita alla propria tomba, dove giacciono i resti di uno sconosciuto col nome Mattia Pascal. E lui? Giunto alla sua terza identità, deve mettere il fu davanti al nome che portava al tempo della prima.
Perché rifarsi a un caso letterario dopo avere attinto dalle vicende reali di ogni giorno? Perché una storia simile a quella nata dalla fantasia di Pirandello si è verificata qualche anno dopo l’uscita del romanzo; fa fede l’articolo uscito sul Corriere della Sera del 27 marzo 1920, dal titolo L’omaggio di un vivo alla propria tomba, che racconta come Ambrogio Casati fosse stato dato per morto, mentre in realtà si trovava in carcere e come avesse appreso solo dopo la scarcerazione che la moglie era passata a nuove nozze. La somiglianza più straordinaria col romanzo è nel finale: come Mattia Pascal anche il Casati, portando dei fiori e un lumino votivo, ha fatto visita alla propria tomba.
Nota bibliografica:
- Gabriel Garcia Marquez, Dell’amore e di altri demoni, Arnoldo Mondadori, 1994
- Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Principato, 1988 (prima edizione nel 1840 presso gli editori Guglielmini e Radaelli)
Nota editoriale:
- Il fu Mattia Pascal esce in prima pubblicazione nel 1904; nella edizione del 1921 presso Bemporad è corredato dalla Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in cui l’autore riporta l’articolo dal Corriere della Sera a cui ho fatto riferimento nel mio articolo
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Roberta Barbieri
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