PRESTO DI MATTINA
Fuggire dall’Egitto e dagli idoli vicini e lontani
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«Quando si adorano gli idoli si calpestano gli uomini e si oscura la verità».
Queste parole di don Primo Mazzolari [Qui], scritte sul muro della parrocchia di Borgo Punta, le si incrociava ogni volta che si entrava nel cortile. Le aveva fatte scrivere il parroco, don Piero Tollini, a grandi caratteri bianchi.
Forse perché vigilassimo su noi stessi, avertendoci della tentazione che si annida anche − e soprattutto − in una parrocchia di trasformare Dio in un idolo, di misurare lui su di noi anziché lasciarlo al suo posto, nella sua differenza e alterità, e attendendo che sia lui a farsi prossimo a noi, in un’alleanza che è sempre una relazione di due libertà: un rapporto nella fede, nell’affidamento, nell’ascolto profondo della sua Parola.
Il tempo della lontananza di Dio e della sua distanza va compreso come un momento di quella dialettica della relazione interpersonale che impedisce l’assorbimento l’uno nell’altro, ma garantisce l’unione nella differenza, l’invisibilità nel visibile: «l’unione, pur scartando la separazione, ha mantenuto la differenza» (Massimo il Confessore, Ambigua, PG 91, 1056c).
ATEISMO E IDOLATRIA
L’antagonista della fede e della vera religiosità umana non è tanto l’ateismo ma l’idolatria, che svuota l’umano dal “sentire pietà” verso gli altri rendendo come pietra il cuore di carne: L’idolatria rende deserta, «terra desolata» (T. S. Eliot), quella «sede appassionata dell’amore non vano» (Ungaretti): compassione indicibile “palpito nelle umane tenebre”.
L’idolatria, come zucchero filato al palato, evapora in un nulla e, parimenti, essa dissolve nel nulla la dignità, la relazione, il riferimento alla libertà e al diritto altrui. Tutto viene schiacciato quando si assolutizza ciò che non lo è, in nome di una presunta trascendenza, purezza delle idee e delle cose, dei beni, dei valori. L’epilogo è riduzione delle persone a marionette, delle quali si sfigura e sopprime il bene più grande, il volto e la stessa vita.
«Non c’è niente di più religioso al mondo del nostro rapporto con gli altri» ci ricordava spesso don Piero nelle sue omelie, perché in esso si dà quell’ incontro con il mistero della vera pietà, con il volto dell’umanità di Gesù, il cui sguardo è generativo della vera religiosità.
L’apostolo Paolo scrivendo a Timoteo gli ricorda: «Non vi è alcun dubbio che grande è il mistero della vera religiosità: «egli fu manifestato in carne umana/ e riconosciuto giusto nello Spirito,/ fu visto dagli angeli/ e annunciato fra le genti,/ fu creduto nel mondo/ ed elevato nella gloria», (1Tm 3,14-16).
Don Piero ci ricordava proprio che «la linea di demarcazione ora non è fra Dio e la sua negazione, ma fra l’idolo e il Dio vero. Anche fra i cristiani ci sono degli idolatri che hanno un feticcio che chiamano Dio, ma che ha niente a che fare col Dio vero – è un Dio morto, astratto, ideologico.
Ma chi è veramente Dio? Dio è la garanzia di sistemi di dominazione? Oppure Dio è la garanzia dei processi di liberazione? Abbiamo udito le parole di Mosè agli israeliti che sono sul punto di entrare nella terra promessa: è un Dio che ascolta il grido dei maltrattati, è un Dio geloso dell’uomo, che non riceve il fumo delle vittime, delle candele e degli incensi, è un Dio vindice dei poveri. Questo è il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù, il Dio della liberazione che trova la sua piena ed ultima manifestazione in Gesù Cristo».
Nell’enciclica Lumen fidei − la prima enciclica di papa Francesco, del 2013, testo iniziato da papa Benedetto XVI poi, nell’anno della fede, assunto e continuato dallo stesso Francesco − si legge: «La storia di Israele ci mostra ancora la tentazione dell’incredulità in cui il popolo più volte è caduto. L’opposto della fede appare qui come idolatria.»
Mentre Mosè parla con Dio sul Sinai, il popolo non sopporta il mistero del volto divino nascosto, non sopporta il tempo dell’attesa. La fede per sua natura chiede di rinunciare al possesso immediato che la visione sembra offrire, è un invito ad aprirsi verso la fonte della luce, rispettando il mistero proprio di un Volto che intende rivelarsi in modo personale e a tempo opportuno.
Martin Buber [Qui] citava questa definizione dell’idolatria offerta dal rabbino di Kock: vi è idolatria “quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto”. Invece della fede in Dio si preferisce adorare l’idolo, il cui volto si può fissare, la cui origine è nota perché fatto da noi.
Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli “hanno bocca e non parlano” (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani.
L’uomo, perso l’orientamento fondamentale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri; negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia. L’idolatria è movimento senza meta da un signore all’altro, non offre un cammino, ma una molteplicità di sentieri, che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto.
La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio. Ecco il paradosso: nel continuo volgersi verso il Signore, l’uomo trova una strada stabile che lo libera dal movimento dispersivo cui lo sottomettono gli idoli».
L’IDOLO E L’ICONA
La differenza tra l’idolo e l’icona è stata analizzata da Jean-Luc Marion [Qui], L’idolo e la distanza, Milano 1979). Nell’idolo ogni distinzione e differenza del soggetto nella relazione viene annullata, l’alterità è assorbita nell’identità; l’invisibilità, il mistero dell’altro, il sacramento del suo volto vengono ridotti solo all’ambito della loro visibilità: il suo volto viene pietrificato, negata la sua libertà.
«L’idolo impone la propria visibilità, si dà a vedere, avvince lo sguardo, lo ferma su di sé, su ciò che esso presenta allo sguardo sensibile, al quale non permette di evadere, di attraversarlo, di innalzarsi verso la realtà invisibile che esso pretende di rappresentare: l’idolo assorbe il divino in se stesso, lo limita alla misura che lo sguardo può sopportare, vale a dire, in definitiva, mirare, produrre lo sguardo umano…
L’icona, al contrario, illuminata dall’interno, «fa sorgere una presenza personale», conduce alla trascendenza, riveste un valore mistico e quasi sacramentale» (Joseph Moingt [Qui], Immagini, icone e idoli di Dio, in Concilium 2001/1, 173-174).
L’icona lascia che l’altro si manifesti, si ritira per fare spazio all’altro e perchè sorga il mistero di cui è portatore, non fissa l’invisibile nel visibile, lo lascia passare, si lascia attraversare e interpellare da questi. Nell’incontro dei volti si dà la presenza di Dio.
Vi è un’immagine di Dio in ogni persona umana che, per la solidarietà del Cristo al destino di ogni uomo, viene a riflettersi in quella del Figlio, nel suo volto. Così l’umanità di Gesù immagine del mistero di Dio in ogni uomo si rivela l’immagine dell’umanità di Dio per noi: «Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4, 20).
VITELLO D’ORO E VITELLO GRASSO
Preparando la riflessione del vangelo di domenica scorsa, mi era capitato di leggere un testo dell’Esodo, che raccontava del vitello d’oro e così mi era venuto quasi spontaneo domandarmi quale fosse la differenza tra il vitello d’oro del Sinai e il vitello grasso della parabola del Padre misericordioso e del figlio perduto e ritrovato, che era come morto ma poi il Padre, avendolo riavuto vivo, gli ridona la dignità figliale, imbandendo una grande festa.
Mi sono detto: guarda come il vangelo ci viene dato perché smascheriamo gli idoli, anche quelli nascosti in casa nostra; l’idolo, quello del figlio maggiore era la primogenitura, il patrimonio, l’eredità che rischiava di esser sperperata ancora una volta; non gli importava né del Padre né del fratello. Lui vagheggiava almeno un capretto – questo era il piccolo idolo che custodiva nel cuore − per far festa e mostrarsi il più grande, il futuro padrone di casa, vantandosene con i suoi amici.
Il vangelo decostruisce gli idoli e fa ritrovare le relazioni più autentiche, quelle che fanno vivere, relazioni da costruire fissando lo sguardo nel volto misericordioso del Padre del quale Gesù dice: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
Mentre Mosè era sul monte il popolo non sopportava la sua assenza, né quella di Dio e volle farsi un’immagine. Per questo scimmiottò, prese a modello gli dei dell’Egitto che erano raffigurati con sembianze di animali. Così Aronne costruì un vitello, usando l’oro che il popolo aveva ricevuto dagli egiziani all’uscita dall’Egitto, monili, collane vasellame d’oro.
L’idolo depreda, spoglia dei beni, svuota, succhia via la vita da coloro che si fanno suoi adoratori. Pensate a chi fa del denaro il proprio idolo: finisce fatalmente per diventare avaro, povero. È lui stesso, nella sua insensatezza, a privarsi di ciò che più brama.
Adoratori del potere, della guerra, che fanno di se stessi il proprio dio e, pur di assomigliargli, distruggono tutto ciò e tutti coloro che incrociano sulla loro strada, sacrificano e immolano al moloch di turno divinità abbinata al fuoco distruttore.
Al contrario, il vitello grasso della parabola è simbolo di una paternità di Dio che dona tutto, anche il proprio figlio, per offrirci con lui ogni cosa. Una paternità, quella della parabola, che non teme di perdere tutto il suo patrimonio per riavere il figlio, il quale privo di tutto – tanto che «avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla» (Lc 15, 16) − viene nuovamente rivestito di tutto, persino dell’anello d’oro che aveva perduto, simbolo della dignità figliale ritrovata.
Una persona della parrocchia mi ha scritto che il vitello grasso simboleggia anche la grandezza e l’abbondanza del perdono (“70 volte 7”), che si trasforma in festa di rinascita: non dovevamo far festa dice il Padre al maggiore perché questo tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato, era morto ed è tornato in vita? Anche in parabola non ci viene narrata forse la Pasqua di risurrezione?
Continuo anche oggi, nei vespri della domenica ad intonare in latino l’incipit del salmo 114 (113) il canto della speranza: In exitu Isräel de Aegypto: «Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, Giuda divenne il suo santuario, Israele il suo dominio». Lo vado salmodiato sull’armonia gregoriana, come quando lo cantavo appena entrato in seminario. Ogni volta mi rammenta il canto nuovo della Pasqua a noi ancora in cammino, protesi verso di essa.
Dice il Midrash: «Quando Israele uscì dall’Egitto, ci fu il cantico del mare (Es 15); quando stette presso il monte Sinai per ricevere la Torà, essi intonarono il cantico dell’alleanza, ossia il Cantico dei cantici: “Mi baci con i baci della sua bocca”. E così via, fino al momento in cui “lo vedranno nel mondo avvenire” e dal loro cuore sgorgherà un cantico nuovo».
FUGGIRE DALL’EGITTO E FUGGIRE DAGLI IDOLI VICINI E LONTANI
Se l’anima fuggendo dall’Egitto
scorgesse subito i colli di Chanan,
se sui frantumi degli dei stranieri
brillasse subito il volto immortale
e dagli sguardi della nostra rinuncia
già scaturisse amore,
quali ali darebbe al nostro passo
questa certezza anche tra pietre e spini!
Noi non sappiamo invece quante miglia dividano
l’ingresso nel deserto dall’incontro con Lui:
ci sgomenta la terra di nessuno
non più nostra, non ancora di Dio.
(M. Guidacci [Qui], In exitu, da Un cammino incerto).
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Andrea Zerbini
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