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Ciò che oggi so l’ho imparato da solo. Sono, per così dire, un pittore selvaggio, perché sono cresciuto come un selvaggio, senza aiuti né sostegni. A quel tempo (estate 1959) disegnavo molto dal vero: paesaggi, piante, fiori, oggetti domestici, ritratti di conoscenti e familiari. Disegnavo anche nasi, orecchie, mani, in tutte le variazioni possibili. Questa fu la mia scuola d’arte: osservare e disegnare
Adelchi Riccardo Mantovani

Arriviamo al Castello Estense, accolti dalle splendide sculture in rame e terracotta “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori – Umanità” di Sara Bolzani e Nicola Zamboni. Non solo cavalieri, possenti destrieri e personaggi di sapore epico-cavalleresco ma anche migranti, profughi e disperati che incarnano gli orrori della guerra tanto attuale, un angelo ispirato alla Melancolia di Dürer che scrive e alcuni personaggi del mondo cavalleresco di Ariosto, come Angelica e Astolfo con il senno di Orlando, ma anche il poeta stesso, coronato d’alloro e vestito all’antica, in piedi accanto a un tavolo dotato di una sedia alata, che simboleggia la possibilità di volare con la propria fantasia grazie alla letteratura. Non mi ero ancora soffermata su questo gruppo scultoreo che attira molti turisti nel farsi fotografare accanto ai personaggi che più rispecchiano il proprio sentire, le premesse sono ottime.

Con la mia amica Rosi sono diretta alla mostra antologica che Ferrara dedica, per la prima volta in Italia, al pittore Adelchi Riccardo Mantovani, ferrarese di nascita (di Ro Ferrarese, per la precisione) e tedesco di adozione. Leggo che questo artista, poco conosciuto in Italia (non pare lo stesso in Germania), è caratterizzato dalla capacità d’evocazione fantastica di cui, prima di lui, erano stati interpreti Ludovico Ariosto, Dosso Dossi e Giorgio de Chirico. Incuriosita percorro i lunghi corridoi del Castello, sfiorandone le prigioni, ed entro.

La mostra, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara in collaborazione con il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, dove si trasferirà dopo la tappa ferrarese, ripercorre l’intera produzione di Mantovani attraverso oltre cento opere, tra dipinti e disegni, che documentano la sua personale interpretazione di un realismo onirico costantemente nutrito dall’osservazione del vero e dalla memoria.

È stupefacente, fin dalle opere delle prime sale, coloratissimo e lume per la fantasia. Si può solo guardare, restare rapiti e cercare di capire. Interpretare non è semplice, ma la bellezza di ciò che cui ci si trova di fronte sta anche nel cercare di trovare la propria personale lettura di un mondo fantastico, allegorico e fiabesco, che affonda le radici nell’arte antica (la pittura del Quattrocento padano e il naturalismo fiammingo) e raccoglie i suggerimenti delle più affascinanti correnti figurative del primo Novecento, dalla Metafisica di de Chirico alla Nuova oggettività tedesca, dal Surrealismo di Delvaux e di Magritte al Realismo magico.

La natura è il modello primario: ogni foglia o filo d’erba è accuratamente reso alternando la tecnica della tempera a quella dell’olio sulla tavola di legno ben levigata e preparata a gesso. Ci sono gli alberi, i prati, le piante, i fiori, li aliti di vento, il fiume, gli argini, il cielo e le nubi.

La particolare magia di queste opere sta anche nella scoperta della vita stessa di Mantovani, nella storia difficile di chi, dalle difficoltà, è emerso, alla fine, vincente con le sue sole carte e idee, con la propria volontà e capacità di creare qualcosa di assolutamente unico. Ferrara oggi celebra Adelchi Riccardo Mantovani nei suoi ottant’anni, trascorsi fisicamente lontano ma senza essersene mai realmente andato. In un sogno senza fine.

La regina, 2006

Nato a Ro Ferrarese nel 1942, figlio della bidella della scuola elementare, Mantovani, rimasto orfano del padre, a causa delle ristrettezze economiche familiari viene affidato alle suore dell’orfanotrofio di Ferrara dal 1946 al 1952. La sofferenza e la lacerazione portate da questo momento (le sorelle restano con la madre, solo lui viene lasciato all’istituto che si trovava in Corso Porta d’Amore e che oggi non esiste più) la si percepiscono in tutte le sue opere ma soprattutto in Nebbia, del 2017, dove il ragazzino che stringe forte la mano della madre percorre proprio Porta d’Amore, verso quel luogo triste che dalla sua nebbia esterna ne porterà di altrettanto fitta interiore.

Nebbia, 2017

Per non citare il quadro Mio padre (2010), dove viene ritratto il genitore in uniforme, nato nel 1909, non più tornato dalla guerra. Accanto a lui colpisce una cartolina, che pare una fotografia, spedita alla famiglia dal fronte sulla quale campeggia la scritta “Vinceremo”, a ricordare ancora (e sempre) la tragicità della situazione.

Successivamente, Mantovani viene mandato in collegio a seguire i corsi professionali per imparare il mestiere di tornitore e, nel 1964, a 22 anni, si trasferisce in Germania, stabilendosi a Berlino, dove inizia a lavorare in fabbrica. Il clima culturale della città lo incoraggia a riscoprire l’attitudine al disegno che si era manifestata ai tempi del collegio. “Quando ero dalle suore – ricorda lui stesso – mi procuravo le matite, strappavo le due pagine interne dai quaderni di scuola e facevo dei quadernini piccoli che riempivo tutti di disegni. Questo è stato il mio inizio”. A ricordare questi momenti, il quadro Scuola di disegno, del 1996, dove l’artista intende mostrare i primi tentativi artistici. Per questo ha usato una fotografia scattata il giorno precedente la sua cresima, a sette anni, per dimostrare non tanto l’originalità di quei tratti rispetto a quelli dei suoi coetanei quanto la caparbietà nel seguire una strada cui era destinato: quella di esprimere le proprie fantasie con l’arte. In questo quadro copia e riproduce diversi dipinti eseguiti fino alla metà degli anni Novanta, miniaturizzandoli, molto dei quali esposti. Una sorta di inventario per vedere i risultati di un percorso ricco e affascinante.

Scuola di disegno, 1996

Anche paesaggio eroico, del 2008, rappresenta una summa delle attività dell’artista: in un paesaggio prerinascimentale vengono passate in rassegna gran parte delle figure nate dalla sua ricca fantasia. L’unico personaggio nuovo è lui all’età di circa dieci anni ammirato da due bambine curate e ben pettinate.

Paesaggio eroico, 2008

In Prima del risveglio, del 2016, ritroviamo la severa atmosfera del collegio, dove un ragazzino sogna: i suoi compagni seguono una lezione di disegno ma possono disegnare tutto tranne la modella nuda che non devono nemmeno azzardarsi a guardare. L’insegnante, con la riga nascosta dietro la schiena, pronta a punire, veglia a che questo non accada. Il ragazzino si sveglierà presto dal suo tiepido sonno e tutto scomparirà. Da bambino, in quel collegio, Mantovani, racconta, era solito raccontarsi storie per scacciare la paura della notte e l’infelicità della solitudine e quel bambino che dorme e sogna ci fa pensare a questa sua consuetudine.

Prima del risveglio, 2016

Ma torniamo a Berlino, dove Adelchi frequenta le scuole serali di pittura, i corsi di nudo, studia la storia dell’arte ed espone in mostre collettive insieme ad altri artisti. Nel 1979 abbandona i panni dell’operaio per indossare, definitivamente, quelli di pittore. Dopo due personali berlinesi di successo (galleria Taube e Kommunale Galerie), può scegliere di dedicarsi a tempo pieno alla sua pittura fantastica, echeggiante il naif.

Fu Vittorio Sgarbi a scoprirlo e a organizzargli la prima importante mostra a Berlino; un suo articolo di Sgarbi L’Europeo incuriosisce poi un collezionista miliardario, Orazio Bagnasco, il quale acquista tutta la sua produzione iniziale, una quarantina di quadri.

In questo periodo giunge a piena maturazione la sua singolare ricerca tesa alla creazione del mondo fantastico, fiabesco e visionario che vediamo. L’amore per l’Italia c’è tutto.

Resto particolarmente colpita dalle visioni padane fatte di notturni, pioppi e casolari, e dai particolari ferraresi, che sorprendono perché paiono dipinte stando qui, mentre invece lo sono sotto il cielo di Berlino, lontani ma con un ricordo forte, intenso e reale.

L’attesa, dipinta nel 2001, ricorda l’alluvione del Polesine del 1951, quando l’artista era in collegio, ragion per cui solo più tardi ne ricevette il racconto dalla madre. Il dipinto, un olio su tavola, raffigura una scena simile a quella che Mantovani riporta di aver visto in un film con Peppone e don Camillo, personaggi che infatti qui appaiono tra la folla, insieme alla madre, alle due sorelle e a un povero diavolo seduto su una piccola zattera in mezzo al fiume. La sua famiglia e gli abitanti di Ro si erano radunati sulla cima dell’argine destro del Po, convinti che se si fosse verificata l’esondazione si sarebbero salvati, convinzione bizzarra, perché la rottura dell’argine sarebbe potuta avvenire anche sotto i loro piedi. Ma il fiume straripò dall’argine sinistro inondando la sponda veneta.

L’attesa, 2001

Anche il Notturno padano e il Tramonto padano ci riportano alle nostre atmosfere.

Il primo, del 1994, sembra quasi una fotografia. Ma dopo una prima impressione di realismo, osservandolo bene, si cambia idea. Compaiono, infatti, alcune presenze bizzarre: animali selvaggi nella pianura padana, scimmie sul tetto della fattoria, una civetta gigante in mezzo a un campo, una tigre che passeggia sulla strada, due pinguini sull’argine che osservano i ciclisti ignari e spensierati. Queste presenze non disturbano però la serenità della notte, con le sue ombre, attraversata da nuvoloni e lampi disegnati originariamente a carboncino nel 1960. Perché tutto torna utile… Nella dolcezza della lontananza.

Notturno padano, 1994

Il secondo, del 2004, secondo quanto dice l’autore, trae ispirazione da una foto del sole con una piccola macchia nera, apparsa su una rivista online: il pianeta Venere che gli stava passando davanti. L’artista colse l’occasione per dipingerlo alla sua maniera, ambientandolo in uno scenario padano, tra campi di grano di una fattoria, un contadino con le sue mucche, uno spaventapasseri, un cane e un gatto, ma soprattutto una ragazza che resta affascinata dal sole con una macchia nera che tramonta dentro al pozzo.

La cantastorie 2, del 1986-87 ci porta alla delizia di Belriguardo, nei pressi di Voghiera, con la narrazione cantata della vicenda dell’Orlando furioso. Ciò che la giovane declama lo si può osservare nel piccolo teatrino ambulante alle sue spalle, Orlando che ha perso il senno per una delusione d’amore. A salvarlo arriva il cavaliere Astolfo che, con il suo cavallo alato, vola sulla luna alla ricerca del senno perduto dell’amico. Secondo Ariosto il senno si trova qui, chiuso in ampolle e contrassegnato con il nome del suo proprietario. Astolfo si avvicina a Orlando con l’ampolla per farlo rinsavire; in una giornata ventosa e piena di nubi dal colore di panna, ad assistere allo spettacolo solo un bambino con la sua maglietta azzurra e il suo cavallo giocattolo. Un prato fiorito che quasi emana profumo. Ferrara sempre presente.

La cantastorie 2, 1986-87

Il Paletot rosso, del 2006, che è stata scelta per la locandina della nostra e la copertina del suo catalogo, rappresenta, invece, una scena del racconto Trefossi dell’artista. Mariagrazia è seduta su un paracarro lungo l’alberato argine del Po, in un’ambientazione tipicamente padana: una nebbiosa e malinconica giornata invernale. Con il suo paletot rosso fiammante la si riconosce facilmente da lontano, nonostante la foschia. La chiamano la pazza del paese, attende qualcuno ma non si sa chi, non lo sa nemmeno lei. Quando vede l’amico Angelo arrivare con il motocarro, lo ferma perché forse vuole un passaggio per recarsi a Ferrara, nessuno sa per fare cosa. Una ragazza piena di misteri. Va in città o altrove? E perché mai? Angelo la prende con sé, è la sua preferita, non la considera matta, ma solo disorientata, incapace di gestire la prioria vita. Anche a noi piace immaginarla così. Tra serenità, candore, nostalgia, speranza e un poco di giovanile inquietudine.

Il paletot rosso, 2006

Molto belle anche alcune figure femminili. Dal viso dolce della ragazza lettone, dipinta a memoria, de La bella domenica (2003), con, sulla cornice la frase in latino “bramo colei che fugge e fuggo da colei che mi brama”, a quello di Fräulein Pusteblume, imperatrice di Bisanzio (2012), seduta sul trono, la cui cornice, molto lavorata, ha otto tondi con vari ritratti femminili presi dai suoi quadri. Adelchi sorride quando pronuncia la parola Pustelblume che in italiano significa soffione cioè pappo del tarassaco che, agendo come un paracadute, agevola con il vento la dispersione dei semi e la proliferazione della pianta, la sua vita. Questa icona è essa stessa un inno alla vita, un trionfo della natura.

La bella domenica, 2003
Fräulein Pusteblume, imperatrice di Bisanzio, 2012

E poi troviamo anche Greta, in Regina mundi (2020), una moderna Giovanna d’Arco che, con il suo fascino di timida fanciulla e il suo perfetto inglese, ha saputo mobilitare milioni di persone nel mondo – fra cui molti giovani – nella sua battaglia per il clima.

Una delle opere a chiusura del percorso, La fine della guerra infinita, realizzata nel periodo di pandemia (2021), ci riporta drammaticamente e incredibilmente alla situazione attuale.

L’artista aveva tre anni quando la guerra finì ma, malgrado la sua tenera età, ne ricorda soprattutto il poco che era rimasto della casa di famiglia distrutta da una bomba.

La fine della guerra infinita, 2021

“Considerando la storia umana”, scrive, “si ha però l’impressione che non ci siano state migliaia o milioni di guerre, bensì una sola iniziata a partire dall’apparizione dell’uomo sulla terra e mai terminata. Quella che chiamiamo pace sono in realtà delle brevi interruzioni di questa abominevole abitudine egli esseri umani di massacrarsi gli uni con gli altri, ergo, una guerra che terminerà probabilmente soltanto quando l’umanità sarà scomparsa”.

Attuale, troppo attuale. Drammaticamente attuale. Non gli vorrei credere, no davvero, ma il sorriso con cui sono entrata ha perso vigore.

Le fotografie sono di Luca Gavagna

 

Il sogno di Ferrara – Adelchi Riccardo Mantovani, Ferrara, Castello Estense, 5 marzo – 9 ottobre 2022
Da un’idea di Vittorio Sgarbi. Organizzatori: Fondazione Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara, in collaborazione con Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Orari di apertura
Dalle 10.00 alle 18.00, chiuso il martedì (la biglietteria chiude 45 minuti prima)
Prenotazioni https://prenotazionemusei.comune.fe.it/ – Ufficio Informazioni e Prenotazioni Ferrara Mostre e Musei | tel. 0532 244949

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.


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