«Che cos’è luna? il pezzo greggio
di minerale, non ancora fuso e forgiato»
(Ted Hughes).
La chiesa che non c’è. Immaginare la chiesa nel cono di luce delle beatitudini: era questo il titolo che introduceva una giornata di studio interparrocchiale tenuta a Santa Francesca nell’ottobre 2017 per approfondire un nuovo cammino pastorale triennale indicato dal vescovo Giancarlo Perego appena eletto a Ferrara-Comacchio.
L’obiettivo era quello di declinare in diocesi l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013) riproposta con vigore da papa Francesco al V Convegno ecclesiale di Firenze (2015): “Sognate anche voi questa chiesa”. Di qui l’itinerario proposto e articolato dal nostro vescovo nelle seguenti tappe: 2017-2018 Immagini di Chiesa; 2018-2019 Partecipazione e sinodalità (le strutture della chiesa); 2019-2020 Stili di vita cristiana.
Un cammino riproposto anche per il 2021, durante il quale l’impegno si è concentrato sul “dare forma” alla chiesa del non ancora: una chiesa nascitura composta, nella nostra diocesi, dalle unità pastorali di una nuova geografia pastorale.
Scrive al riguardo il vescovo: «Ogni stato e stile di vita, con responsabilità e l’attiva partecipazione alla vita ecclesiale, favorisce in un determinato territorio il cammino del ‘popolo di Dio’, la costituzione del ‘corpo di Cristo’, che è la Chiesa. Un ‘popolo’ e un ‘corpo’ che vive anche di strutture, che nel corso della storia hanno assunto forme diverse: la diocesi, la pieve, la parrocchia, l’unità pastorale. A questo proposito, vi invito a continuare una riflessione iniziata nella nostra Chiesa, nei diversi organismi diocesani, vicariali e parrocchiali: la riflessione sulla nuova geografia della nostra Arcidiocesi, strutturata non più solo su due livelli – parrocchie e vicariati – ma su tre livelli – parrocchie, unità pastorali, vicariati».
A seguire ci fu la lettera sugli orientamenti pastorali del biennio “2022-2023: Eucaristia sacramento del dono“: «È un cammino che incrocia l’anniversario degli 850 anni del Miracolo Eucaristico di Ferrara (1171-2021), la celebrazione del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità, che accompagnerà anche la Chiesa Italiana fino al Giubileo (2025) e la preparazione alla Visita Pastorale Diocesana».
Tutto questo ha fatto da sfondo e premessa al sinodo dei vescovi sulla sinodalità che ora stiamo vivendo, una grazia e un compito allargati a tutto il popolo di Dio, con le sue tre fasi (“narrativa: l’ascolto”; “sapienziale: discernimento”; “profetica: scelte evangeliche”). Questo nuovo cammino voluto da papa Francesco va vissuto tenendo costantemente presente la dinamica fondamentale tra un “già” e un “non ancora”, alla scoperta di una chiesa che ancora non c’è.
La chiesa che non c’è è allora quella che c’è già, ma non ancora: come la nuova luna, che attende di nuovo di essere forgiata nel crogiuolo del sole, amalgamandosi alla sua luce, per disperdere le tenebre che la nascondono, per ritornare così a risplendere.
La chiesa lunare è immagine cara alla tradizione patristica e a papa Francesco: «Noi cristiani paragoniamo Gesù Cristo con il sole, e la luna con la Chiesa, la comunità; nessuno, eccetto Gesù, brilla di luce propria, nemmeno la chiesa non ha luce propria, e se la luna si nasconde dal sole diventa scura. Il sole è Gesù Cristo, e se la Chiesa si separa o si nasconde da Gesù Cristo diventa oscura e non dà testimonianza».
L’immagine della Chiesa-luna come “luce riflessa” era già al centro del breve intervento svolto da Jorge Bergoglio nel pre-Conclave; ma è ricordata pure nell’incipit del documento conciliare Lumen Gentium, 1: “Cristo è la luce delle genti, quella luce “che risplende sul volto della Chiesa”.
L’allora arcivescovo di Buenos Aires aveva parlato «dell’auto-referenzialità delle istituzioni ecclesiastiche» e del «narcisismo teologico» come patologie che si sviluppano quando la Chiesa «crede involontariamente di avere una luce propria».
È Ambrogio di Milano [Qui] il cantore della chiesa-luna: «La Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo e prende il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Davvero sei felice tu, o luna, che hai meritato un segno così grande! Felice non per i tuoi noviluni, ma per essere segno della Chiesa; coi noviluni infatti presti servizio (servis), in quanto sei segno della Chiesa sei amata (diligeris)».
Il tempo inaugurato da Cristo – ci ha ricordato il teologo Oscar Culmann [Qui] – è così caratterizzato, al pari delle fasi lunari, dal “già” e dal “non ancora” del regno di Dio. E la chiesa non scompare quando viene meno la luce: l’attende di nuovo con il venire a lei del suo sole.
Così essa – ci ha ancora ricordato il concilio – «costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria» (LG 5).
Ma lo stesso è della fede di ogni battezzato, che partecipa e alimenta tale dinamismo: è connaturato infatti alla fede cristiana vivere tra un “già” e un “non ancora”. Del resto il regno è un “simbolo in tensione” una “realtà pluriforme”: per questo nella predicazione del Gesù storico esso appare imminente, ma già presente, veniente e vicino o addirittura “in mezzo” a coloro che credono al suo annuncio.
C’è un distico latino, una strofa formata da più righe, che non solo mette in luce i vari livelli di lettura e comprensione delle scritture bibliche, ma dà ragione di questa tensione pluriforme del “già” e “non ancora”, di un vangelo che c’è e al tempo stesso è ancora nascosto, in quanto ancora da comprendersi e da attuarsi nell’oggi; un vangelo che non solo il futuro e la storia racchiudono, ma che è interiore ad ogni persona, celato e non ancora manifesto in essa. Il distico cui alludo enuncia:
“La storia dice ciò che è accaduto,
l’allegoria cosa credere,
la morale cosa fare,
l’anagogia dove tendere”.
La parola “anagogia” significa, alla lettera, ‘movimento o spinta verso l’alto, salita, ascesa’. Nell’uso cristiano questa parola ha finito per raccogliere in sé tutto il vasto campo del “non ancora”, distinto dal “già”, realizzato nella vita di Cristo e della Chiesa.
In altre parole, la tensione escatologica verso il compimento ultimo, il giorno senza tramonto, l’ultima Pasqua della vita cristiana. L’Eucaristia stessa è prognostica, anticipa ciò che sarà, facendo memoria della Pasqua essa è celebrata e vissuta “nell’attesa della Sua venuta” (cfr. 1 Cor 11, 26).
Nel discorso teologico l’anagogia consiste in una riflessione sulle realtà ultime: un dire. Invece nella prassi e spiritualità cristiane consiste nel tendere di fatto alle cose ultime: una prassi in cammino, che va facendosi man mano che si cammina.
Chi ha mostrato bene con un esempio questa duplicità è Agostino d’Ippona [Qui]: «Quando si vuole attraversare un braccio di mare – diceva – la cosa più importante non è starsene sulla riva e scrutare l’orizzonte per vedere cosa c’è sulla sponda opposta, ma è salire sulla barca che porta a quella riva» (La Trinità, IV,15, 20; Confessioni, VII, 21). È così che si va incontro alla chiesa che non c’è, nascosta con Cristo nel futuro di Dio.
Dal 2013 al 2017 nelle nostre parrocchie abbiamo messo a tema e ci siamo confrontati con le beatitudini del Regno per immaginare la chiesa tra “già” e non “ancora”. Sono le beatitudini un passante di valico da cui scrutare e cercare dove Dio si è accampato, dove ha posto la sua tenda per raccogliere la sua famiglia in esodo e guidarla alla terra promessa.
Dobbiamo avere lo sguardo di Gesù sul monte delle beatitudini che riconosce tra la folla che lo ascoltava il Padre in mezzo a quella gente, presente lì con loro; così egli non può non vedere in quella gente, in quegli uomini e donne, i destinatari del Regno dei cieli e delle beatitudini: per questo li proclama beati, cioè già ora accolti, già ospitatati nella prossimità del padre suo.
La prossimità del Padre – prossimità impensabile, incondizionata, affettiva (“Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio” Gv 3, 16), presenza di un amore che riapre, come nell’esodo, la storia di un popolo – si rivela di nuovo nella prossimità e intercessione del Figlio per l’intera umanità.
Prossimità e intercessione divengono così due tratti imprescindibili per immaginare, delineare e dare forma a una figura e una realtà di chiesa che è in essere, ma non è ancora: un nuovo capitolo di una storia di salvezza antica e sempre nuova – direbbe ancora Agostino: «Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova» (Confessioni, 10, 27).
Scrive Pierangelo Sequeri [Qui] ne La fede e la giustizia degli affetti, (Siena 2019, 272-272): «La testimonianza della giustizia/agape di Dio che elegge il suo campo di esercizio privilegiato nella folla dei poveri, dei vulnerabili, dei disperati e di tutti gli altri avviliti della vita di cui parlano le beatitudini, è il luogo di una chiesa-famiglia nella quale vanno investiti i beni residuali di una chiesa-città che non esiste più, perché la Chiesa ritorna ad essere prossimità e intercessione del Figlio nella Città secolare».
Una chiesa senza prossimità e senza intercessione resterebbe senza Dio, perché non esiste Dio senza prossimità all’umano, ma solo un idolo fatto da mani d’uomo. Se i segni della prossimità di Dio sono inseparabilmente liberazione dal male e offerta della sua giustizia/amore verso gli uomini e le donne delle beatitudini, nessuno può esimersi dal praticare tale giustizia che richiede la conversione del cuore, la prossimità e l’intercessione dell’uomo con l’uomo nella stessa misura di quella che il Dio, incarnatosi in Gesù, riserva a ogni uomo.
Nella parabola del servo spietato (Mt 18, 23-35) si dice: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». E in Matteo 25, 31-46 si riporta lo stupore di colui che ha avuto compassione: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”».
Come immaginare la chiesa che non c’è?
Leggiamo nel documento preparatorio del Sinodo dei vescovi (08/09/2021): «La capacità di immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta dipende in larga parte dalla scelta di avviare processi di ascolto, dialogo e discernimento comunitario, a cui tutti e ciascuno possano partecipare e contribuire» (n. 9).
«Ricordiamo che lo scopo del Sinodo e quindi di questa consultazione non è produrre documenti, ma “far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un ‘alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani“» (n. 32).
Anche nella poesia di Mario Luzi [Qui] troviamo questo simbolo in tensione della promessa e del compimento, del già e del “non ancora”:
L’invito ad aprirsi all’anelito segreto non ancora rivelato:
Nella notte e nella coscienza
Si apre al non ancora rivelato
L’anelito segreto svelandosi a sua volta,
e il desiderio-
…
L’appena detto,
il non ancora nominato
quando accendono una scaglia d’intelligenza negli occhi altrui;
e sfolgora un’intesa
e si giunge dall’uno all’altro attraverso il fuoco,
il fuoco ilare, il fuoco elementare della creazione incessante.
L’anelito che sospira una figura non ancora conosciuta:
L’alta, la cupa fiamma ricade su di te,
figura non ancora conosciuta,
ah di già tanto a lungo sospirata
dietro quel velo d’anni e di stagioni
che un dio forse s’accinge a lacerare.
Il destarsi a poco a poco delle immagini, che incalzano il futuro non ancora acceso, se non in quell’eremo sopra il cuore:
Rare immagini deste nella mente,
pochi misteri infine elucidati
dall’amore, ridoni a verità,
come te consentivano l’attesa.
Dall’incubo alle lucide promesse
ancora sconosciuta, non ancora
caduta nel cospetto dello spirito
incalzavi il futuro con fuochi di vittoria
pari a quelle potenze inquiete il cui trionfo
è un incombere eremo sopra il cuore.
Come i magi aperti alla novità:
Andavano cauti loro, i Magi,
occhiuto era il viaggio
in avanti
o a ritroso? Procedendo
o tornando
ai luoghi
d’un’ignota profezia?
Sapevano e non sapevano
da sempre la doppiezza del cammino. Non è ricaduta
inerte nel passato
e neppure regressione
nel guscio delle cose già sapute
questo
ritorno della strada
spesso,
su se medesima,
ma nuova
conoscenza, forse,
ed illuminazione
di un bene avuto e non ancora inteso –
dice
uno di loro
e gli altri lo comprendono
sì e no, ma sanno
ed ignorano all’unisono…
e proseguono
insieme,
vanno e vengono
insieme nel va e vieni del viaggio.
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Andrea Zerbini
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