Se c’è un abito rappezzato i cui rammendi non tengono più, quello è l’esame di stato.
Eppure con ostinazione, degna di miglior causa, continuiamo a pretendere che nuove leve di maturandi lo indossino, dimostrando le condizioni di povertà in cui versa il nostro sistema formativo.
Ora quarantamila studenti hanno indirizzato al ministro dell’istruzione la richiesta di abolire le prove scritte per la sessione 2022 dell’esame di stato, in considerazione di una scuola ridotta a singhiozzo da ben due anni di pandemia.
Non hanno chiesto, visto che ci sono ancora parecchi mesi prima del prossimo giugno, di aumentare le ore settimanali di scuola per recuperare gli apprendimenti perduti, di saltare le vacanze di Natale e di Pasqua, ma di abolire le prove scritte, in modo da occultare eventuali buchi nella loro preparazione.
In definitiva, visto che di questi tempi un bonus non si nega a nessuno, anche loro chiedono un bonus, il bonus esame di stato.
Ciò che dovrebbe far riflettere e preoccupare per primi gli studenti, poi gli adulti, i docenti, lo stesso ministro, è che, dietro la richiesta di abolire gli scritti, c’è la consapevolezza di uscire dal ciclo scolastico non sufficientemente preparati, di aver speso male il proprio tempo e, dunque, l’esame deve essere più facile.
Non si sta rivendicando la tutela del diritto allo studio, violato da anni di pandemia, da un sistema scolastico atrofizzato, no, si avanza una petizione per ottenere un condono.
Non siamo di fronte ad una farsa, ma a una tragedia.
Tragedia, perché la preparazione persa difficilmente potrà essere recuperata e a pagare saranno quegli stessi studenti che ora chiedono il condono delle prove scritte, anziché pretendere che venga loro restituito quanto gli è stato sottratto in termini di apprendimenti e competenze, in tempo scuola, in ore di lezione a cui avevano diritto.
Il fallimento di una formazione scolastica, che in tredici anni di istruzione non è riuscita a inculcare in ragazze e ragazzi l’importanza di possedere saperi e competenze e che questi non si possono barattare con giochini volti a eludere l’importanza di apprendere, non per i voti a scuola, ma per la propria vita da gestire dopo.
Un sistema di istruzione, da cui si può uscire con meno anziché con più, è come un ospedale che dimetta i suoi pazienti dopo una degenza senza cure. Cosi funziona la nostra scuola, incapace di fornire le cure di cui ciascuno ha bisogno.
Non c’entrano l’abolizione del latino, la media unica e il repertorio di accuse alla pedagogia progressista, abbiamo semplicemente perduto la scommessa dell’I Care di Barbiana [Qui], sempre che la scuola pubblica l’abbia mai fatto suo.
Una scuola incapace di cura, di dare a chi non ha, di recuperare gli svantaggi. E siccome la scuola è consapevole di questo dimette senza cure.
È quello che pretendono i quarantamila studenti che chiedono l’abolizione delle prove scritte, anziché rendersi conto di cosa è stato tolto loro in questi anni di pandemia ed esigerne la restituzione, perché usciranno dalla scuola più poveri di saperi e competenze.
Dovrebbe essere il ministro a garantire il diritto allo studio alle generazioni della pandemia, mettendole nelle condizioni di sostenere le prove scritte dell’esame di stato, fornendo loro più ore di insegnamento/apprendimento.
Dovrebbe essere il ministro a prendersi cura di ragazze e di ragazzi, non somministrandogli palliativi, ma attrezzando il sistema formativo, in modo che l’emergenza sanitaria non produca discriminazioni tra il prima e il dopo e che la qualità dell’istruzione sia sempre preservata per tutti.
Allora non deve stupire l’appello degli studenti, né produrre elucubrazioni circa la fuga dei giovani di fronte alle difficoltà e neppure il ritorno alla nauseante importanza formativa dei riti di passaggio.
Tutto questo è un sintomo che nasconde la vera causa: lo stato fallimentare di un sistema formativo vissuto come qualcosa che si può contrattare e contrarre a seconda delle situazioni.
A nessuno, a partire dal ministro, passa per la testa che la vera questione diseducativa è avere cresciuto generazioni che chiedono meno studio anziché più studio, che considerano la scuola più una necessità che un’utilità, più un dovere che un’occasione.
O c’è un’idea di riforma dell’esame di stato, cosa che non può essere lasciata continuamente all’estemporaneità di ogni singolo ministro dell’istruzione, o diversamente non è certo educativo il messaggio ti chiedo di meno perché ti ho dato di meno.
Nel caso della scuola ti ho dato di meno significa che ti ho privato di occasioni fondamentali per la tua formazione. Nel sapere e nelle competenze non c’è un più o un meno, o ci sono o non ci sono.
Occorre risalire a ritroso nel percorso formativo per individuare dove è iniziato quel dare meno che produce le differenze all’interno di una classe, di un istituto fino a investire le regioni del paese, il Nord e il Sud.
È questa ricerca il compito dell’INVALSI [Qui], l’attrezzo prezioso a disposizione delle scuole che vogliano e lo sappiano usare, perché la scuola sia un luogo di cura e non di degenza e che non sia necessario l’esame di stato per accorgersi della malattia, quando ormai è troppo tardi.
L’Invalsi ha messo a disposizione i dati relativi agli apprendimenti durante la pandemia, è legittimo domandarsi che uso ne è stato fatto. Per togliere o per dare di più? Per aggirare le difficoltà o per attrezzarsi a superarle?
Che nel chiedere lo ‘sconto-scritti’ gli studenti non abbiano messo in conto la qualità del loro futuro è comprensibile perché loro vivono al presente, non è ammissibile da parte di chi ha la responsabilità di far funzionare la machina formativa più importante del paese, per il paese e per il futuro delle ‘generazioni-pandemia’.
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Giovanni Fioravanti
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