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A proposito dello stato del lavoro nel nostro paese, due fatti recenti mi hanno colpito. Il primo è la morte (l’ultima di una interminabile catena) di Yaya Yafa, operaio di 22 anni della Guinea Bissau assunto da tre giorni alla logistica di Interporto Bologna (uno dei tanti regni del subappalto senza regole), stritolato da un bilico mentre non sapeva nemmeno come muoversi all’interno di quel piazzale di carico e scarico, essendo privo di qualunque formazione e affiancamento.
Il secondo è una ricerca del European trade union institute, da cui si vede che nella progressione dei salari reali negli ultimi vent’anni l’Italia è il fanalino di coda dell’eurozona, con salari al palo molto peggio che in Germania, in Francia e in Spagna, e una performance negativa superata, in termini di flessione dei salari, solo da Croazia, Portogallo, Cipro e Grecia.

Molti sono i fattori causa della sostanziale assenza di regole sugli appalti (non solo nella logistica), primo fra tutti, forse, l’assenza di controlli e di sanzioni per chi non rispetta le regole formali sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Le aziende risparmiano in sicurezza anzichè investire, e lo Stato risparmia in controlli: basti dire che la legge istitutiva dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (D.Lgs. 149 del 2015) ne previde la creazione “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, il che equivaleva a dire che lo Stato non ci avrebbe messo un euro. Questa condizione assurda è stata di recente modificata da un piano di assunzioni e investimenti, che punta però prevalentemente (altra assurdità) sulla destinazione all’Ispettorato di fondi incerti, in quanto derivanti dalle sanzioni irrogate, alcune delle quali aumentate nell’importo. Una sorta di autofinanziamento attraverso le multe.

Molti sono i fattori causa dell’immobilità, per non dire flessione, del potere di acquisto dei salari. Il primo è senz’altro il fatto che l’Italia, tra i paesi “forti” dell’eurozona, è quella che è cresciuta regolarmente di meno in termini di Prodotto Interno Lordo rispetto a Francia, Germania e Spagna, per citare solo i paesi a noi più affini (vedi ad esempio il grafico pre Covid pubblicato di seguito:   https://www.truenumbers.it/andamento-del-pil/)

Un’altra delle ragioni che spesso vengono citate come caratteristica positiva dell’Italia, e cioè la prevalenza di un tessuto di piccole e medie imprese, è invece probabilmente una concausa della depressione salariale. Ci sono infatti eccellenze positive, che costituiscono però le eccezioni ad una regola che vede queste imprese sottocapitalizzate, poco competitive e poco penetrate da aggregazioni sindacali, per l’elevato potere di ricatto insito nelle piccole realtà produttive.

Le micro e piccole imprese con meno di 50 addetti sono l’asse portante del sistema di PMI italiano e rappresentano, infatti, l’83,9% degli addetti delle imprese fino a 250 dipendenti (che è il limite massimo, quanto al criterio occupazionale, per la definizione di PMI in Italia).

Alcuni inseriscono tra le cause anche l’arrendevolezza del sindacato, e l’osservazione si può anche comprendere, se ci si limita al dato che l’Italia ha il sindacato confederale con la maggiore rappresentatività in Europa, la CGIL. Faccio a questo proposito due considerazioni.

La prima: è un fatto che la maggior frequenza di infortuni sul lavoro e la maggior depressione salariale, spesso collegata all’assenza di contratti aziendali/collettivi o all’esistenza di contratti “pirata” (siglati, cioè, da associazioni sindacali con una rappresentatività quasi inesistente), si riscontrano proprio in quelle realtà aziendali nelle quali il sindacato è meno presente, sia esso confederale o espressione di aggregazioni “di base.

La seconda: c’è uno snodo decisivo nella storia delle dinamiche salariali, ed è l’accordo Governo-Sindacati del  luglio 1992, in una fase in cui l’Italia, dopo la firma del (per molti versi drammatico) Trattato di Maastricht, era avviluppata in una delle sue periodiche crisi da sovraindebitamento.
Giova ricordarlo nelle parole consegnate dall’allora segretario generale della CGIL Bruno Trentin ai suoi Diari:  “Mi sono trovato assediato: al di là delle intenzioni e del peso effettivo della minaccia di crisi di Governo che Amato ha evocato, era certo che un fallimento del suo tentativo avrebbe avuto, a quel punto, degli effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese e sul piano internazionale. La divisione fra i sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico.

Salvare la Cgil e le possibilità  future di una iniziativa unitaria del sindacato; impedire che fosse imputata ad una parte della Cgil la responsabilità di un ulteriore aggravamento della crisi economica, per emarginarla sul piano politico mi imponevano di firmare l’accordo e di lasciare quindi libera la Cgil e i suoi organismi dirigenti di convalidare o meno quella decisione. E spero ancora, per le ragioni politiche che mi hanno indotto a quel gesto che lo faccia e tragga da questo la forza per ribaltare a settembre le regole del gioco fuori da ogni ricatto.

Dall’altra parte, ero ben cosciente che, ciò facendo, disattendevo il mandato ricevuto dalla Direzione della Cgil, quel mandato che avevo sollecitato con tanta insistenza, contrapponendomi alla tesi dei soliti rentiers della politica del sempre peggio, che invocava l’abbandono del negoziato. Non potevo annunciare alla Segreteria della Cgil la mia intenzione di firmare, senza preannunciare le mie dimissioni. Ciò che ho fatto”.

Con quella firma, viene abbandonato il meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’inflazione (la cosiddetta “scala mobile”) ed introdotta – dopo la ratifica da parte delle assemblee dei lavoratori – la “concertazione”, un metodo contrattuale che divide il negoziato in due: un tavolo nazionale che fa da quadro di compatibilità, ed uno decentrato.

Trentin, un partigiano e intellettuale finissimo, firma per non spaccare l’asse confederale in preda al tormento, quel tormento che lo porterà alle contestuali dimissioni e alla definizione di quella scelta come “la prova più terribile della mia vita”.
Ricordo che, nel giugno 1985, la CGIL, pressoché sola assieme al PCI (perchè isolata anche da CISL e UIL), perse il referendum che voleva abrogare il taglio della scala mobile stabilito dal governo Craxi.

In questo contesto drammatico ben si comprende il tormento di Bruno Trentin, che firmò un accordo che aborriva. [Nel mio piccolo, conosco bene la sensazione del ricatto esercitato dal potere durante una trattativa: a me ed altri successe durante l’ultima trattativa su Carife. “O firmate per l’uscita del 50% dei lavoratori, o vi riterremo responsabili del fallimento della banca” (e, sottinteso, vi indicheremo come tali all’opinione pubblica). Bisogna trovarcisi, in certe situazioni, per misurare la propria capacità di bilanciare la rappresentanza delle persone con la responsabilità di non portarle tutte alla disfatta.]

A quasi trent’anni di distanza da quell’accordo, tuttavia, potrebbe essere venuto il momento di voltare pagina.
Può essere  venuto il momento di riacquistare un’autonomia negoziale che segni una rinnovata stagione di rivendicazioni sui diritti e sui salari. Una cosa è sicura: il quadro politico e sociale che abbiamo davanti non autorizza facili illusioni.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it

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