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Cerco il tuo felice volto,
Ed i miei occhi in me null’altro vedano
(Ungaretti, Vita d’uomo, 206).

A questo ermetico verso, che ci ricorda come il linguaggio degli occhi sia il più istantaneo, ‘primordiale’, nel riflettere l’altro e il suo mistero, è sembrato a me fargli eco un’espressione non meno ermetica e profonda, «Nei tuoi occhi è la mia parola», di quel “pastore degli sguardi” che è papa Francesco, specie quando sollecita la chiesa ad essere capace di tessere sguardi di attenzione, di prossimità e tenerezza. Egli infatti è convinto che «lo sguardo di Gesù ridoni dignità ad ogni sguardo. Gesù li aveva guardati e quello sguardo su di loro è stato come un “soffio sulla brace”; hanno sentito che c’era “fuoco dentro” e hanno anche sperimentato che Gesù li faceva salire, li innalzava, li riportava alla dignità», (Santa Marta, 21/09/2013).

E lo sguardo d’altri poi.

Dai loro occhi silenziosi scaturiscono parole nuove, vere. Un incontro di sguardi che fa rinascere le nostre parole logore; che feconda le nostre parole sterili, ripetitive, senza gioia, rendendole parole di affezione, prossimità e condivisione: e dunque credibili per annunciare la gioia del vangelo. Lo stesso che si cela nello sguardo altrui: un vangelo nascosto dentro la vita degli altri, come un tesoro nascosto una perla preziosa, dal quale occorre lasciarsi evangelizzare.

Uno sguardo evangelico lo riconosci subito. Non è uno sguardo anonimo: vive in relazione all’altro, da persona a persona, tramite sguardi di reciprocità, che si voltano quando chiamati per nome. Da loro passa la grazia e il mistero della Parola e delle parole nostre, quelle capaci di generare. Non per caso Nei tuoi occhi è la mia parola è il titolo di un libro che raccoglie le omelie di Bergoglio quando era vescovo a Buenos Aires. Ed esprime l’attenzione di papa Francesco a cercare negli occhi dell’altro le parole da rivolgergli, affinché esse ne riflettano la realtà e non già l’idea che abbiamo di lui. Più grande dell’idea che abbiamo di lui, infatti, è la realtà che parla attraverso i suoi occhi.

Questo sguardo inclusivo, che alimenta e trattiene la presenza dell’altro dentro di noi, è capace di generare parole così autentiche da diventare ‘preghiera di intercessione‘. Tanto che, anche quando non hai più l’altro davanti agli occhi, o perché egli e lontano, o perchè non lo vedi da tanto tempo, quelle parole ne ricordano la presenza accanto a te. Quando chiudi gli occhi nella preghiera, come se chiudessi, evangelicamente, la porta della tua stanza, si apre uno sguardo interiore, che continua a vedere i luoghi, i volti, gli sguardi; a sentire le parole di coloro che hai incontrato nel tempo e nello spazio. E proprio lì non si è più soli, ma vi è anche il Padre tuo che vede nel segreto ed ascolta. L’intercessione, in tutte le sue molteplici forme ed espressioni, situa te e gli altri nella sorgente della preghiera di Gesù al Padre – nei tuoi occhi di Padre le parole mie – e quelle ascoltate fermandosi con le persone incontrate lungo la via.

Durante la discussione sul documento finale di Aparecida alcuni vescovi volevano inserire all’inizio del primo capitolo l’espressione “con uno sguardo crudo sulla realtà”. Fu invece approvata la mozione di Bergoglio che sottolineava la dimensione contemplativa del discepolo missionario di fronte al mondo. Quello che non affronta in modo anonimo la realtà, che si affida a uno sguardo generalizzato privo d’anima e di relazionalità con i volti e persone reali e situazioni concrete, ma ascolta  nel profondo le narrazioni delle storie di ciascuno.

Lo sguardo della fede è sguardo in relazione, che nasce dalla contemplazione. Cresce ogni volta contemplando la Parola e praticandola nell’intreccio, o meglio nell’abbraccio con le parole altrui. Contemplativa e poetica insieme, la parola della fede si origina negli occhi del vangelo e si incarna nelle parole e negli sguardi della gente per poter “vedere”, “discernere” ed “agire” nella realtà, nella storia, aprendo strade per la condivisione dell’annuncio.

«Lo sguardo che voglio condividere con voi è quello di un pastore che cerca di approfondire la propria esperienza di credente, di uomo che crede che “Dio vive nella propria città”. Perché lo sguardo di fede scopre e crea la città. Le immagini del Vangelo che più mi piacciono sono quelle che mostrano ciò che Gesù suscita nella gente quando la incontra per la strada. Lo sguardo della fede ci porta ad uscire ogni giorno e sempre di più all’incontro del prossimo che vive nella città. Ci porta ad uscire all’incontro, perché questo sguardo si alimenta nella vicinanza. Non tollera la distanza, perché sente che la distanza sfuma ciò che desidera vedere; e la fede vuole vedere per servire e amare, non per constatare o dominare. Uscendo per strada, la fede limita l’avidità dello sguardo dominatore e aiuta ogni prossimo concreto, al quale guarda con desiderio di servire, a focalizzare meglio il suo “oggetto proprio e amato”, che è Gesù Cristo fatto carne».

Lo sguardo della fede che spera «non discrimina né relativizza perché è misericordioso. La misericordia crea la maggiore vicinanza, che è quella dei volti e, poiché vuole davvero aiutare, cerca la verità che più fa male – quella del peccato – ma per incontrare il vero rimedio. Questo sguardo è personale e comunitario. Si traduce in agenda, segna tempi più lenti di quelli delle cose (avvicinarsi ad un ammalato richiede tempo) e genera strutture accoglienti e non repulsive, cosa che esige anch’essa del tempo».

Lo sguardo della fede che ama «non discrimina né relativizza perché è sguardo d’amicizia. Gli amici si accettano così come sono e gli si dice la verità. È anche questo uno sguardo comunitario. Porta ad accompagnare, a riunire, ad essere qualcuno in più al fianco degli altri cittadini. Questo sguardo è la base dell’amicizia sociale, del rispetto delle differenze, non solo economiche, ma anche ideologiche. È anche la base di tutto il lavoro del volontariato. Non si può aiutare chi è escluso se non si creano comunità inclusive. Lo sguardo dell’amore non discrimina né relativizza perché è creativo», (Incornare Dio nella città, Omelia, 2011).

Papa Francesco riprenderà questo tema anche nell’Esortazione Evangelii gaudium del 2013: «In una civiltà paradossalmente ferita dall’anonimato e, al tempo stesso, ossessionata per i dettagli della vita degli altri, spudoratamente malata di curiosità morbosa, la Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario, per rendere presente la fragranza della presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale».

“Arte dell’accompagnamento”, la chiama Francesco nello stile di Mosè che si toglie i sandali di fronte a quel roveto ardente, che è ogni persona. Uno sguardo, dunque, «rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo che sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana», (EG 169).

Così Francesco riconosce ammirato come innumerevoli siano le risorse offerte dal Signore e i carismi suscitati dallo Spirito, per dialogare con il suo popolo e renderlo partecipe della missione e del Regno: «Credo che il segreto si nasconda in quello sguardo di Gesù verso il popolo, al di là delle sue debolezze e cadute: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32); Gesù predica con quello spirito. Benedice ricolmo di gioia nello Spirito il Padre che attrae i piccoli. Il Signore si compiace veramente nel dialogare con il suo popolo e il predicatore deve far percepire questo piacere del Signore alla sua gente» (EG 141).

A una chiesa in stile sinodale e in riforma missionaria Francesco chiede anzitutto una “conversione dello sguardo”, capace dire sì alla realtà e riconoscerla come più importante dell’idea. Sì al tempo come superiore allo spazio. Sì all’unità che non si rassegna alle divisioni, ma cerca vie per ricomporre i conflitti. Sì alle diversità sapendo che le parti formano e vivono nell’orizzonte e nell’interesse del tutto che è superiore alle parti, il bene comune al di sopra degli interessi di parte.

Alla conclusione del Sinodo sulla famiglia nel 2015, che ha determinato una discussione libera tra i vescovi e per questo non priva di contrasti e conflittualità, è seguita l’esortazione di Francesco Amoris laetitia del 2016. Che si prefigge di portare avanti un processo di riforma pastorale capace di guardare con realismo alla situazione delle famiglie nel mondo attuale, così da ridare ai pastori uno sguardo e tempi lunghi per continuare ad approfondire con libertà le questioni ancora aperte. Nel documento si chiede una “conversione dello sguardo” sulle abitudini familiari, sulla dottrina matrimoniale, sul conseguente agire pastorale. Lo stile di questo discernimento è all’apparenza molto semplice: occorrerebbe adottare lo stesso sguardo che Gesù riservava alle persone che incontrava in Palestina. Ma farlo con coerenza è tutt’altro che semplice, esigendo una conversione del cuore e della vita al vangelo.

Anche per il recente sinodo regionale Pan-amazzonico del 2019, l’esortazione apostolica di Francesco, Querida Amazonia del 2020 [Qui] riprende lo stesso stile aperto, proprio di chi è consapevole di esser di fronte a un processo di coscientizzazione delle questioni problematiche emerse. La sua è un’esortazione, che incoraggia a proseguire un cammino. Non si pone come chiusura del documento finale dei vescovi, quasi fosse l’ultima parola, ma si mette accanto ad esso. È lo sguardo del Papa sull’Amazzonia, che si unisce ad altri sguardi anche non coincidenti.

Scrive: «Tanti drammi sono stati legati ad una falsa “mistica amazzonica”. È noto infatti che dagli ultimi decenni del secolo scorso l’Amazzonia è stata presentata come un enorme spazio vuoto da occupare, come una ricchezza grezza da elaborare, come un’immensità selvaggia da addomesticare. Tutto ciò con uno sguardo che non riconosce i diritti dei popoli originari o semplicemente li ignora, come se non esistessero, o come se le terre in cui abitano non appartenessero a loro. Persino nei programmi educativi per bambini e giovani, gli indigeni sono stati visti come intrusi o usurpatori. La loro vita, i loro desideri, il loro modo di lottare e di sopravvivere non interessavano, e li si considerava più come un ostacolo di cui liberarsi che come esseri umani con la medesima dignità di chiunque altro e con diritti acquisiti», (QA 12).

Francesco invita così ad una mistica degli sguardi e delle relazioni che faccia entrare nei propri occhi il mistero di Dio rivelato negli occhi dell’altro. In contemplazione dei volti delle persone concrete, che incontriamo ogni giorno. Esorta al senso della contemplazione che per lui è senso “sinodico”, che cammina insieme e insieme si intona “sintonico al senso della poesia.

«Poesia: intendendo con questa bella parola proprio il senso della contemplazione, del fermarsi e donarsi un momento di apertura verso se stessi e gli altri nel segno della gratuità, del puro disinteresse. Senza quel “di più” della poesia, senza questo dono, senza la gratuità, non può nascere un vero incontro, né una comunicazione propriamente umana. Gli uomini “comunicano” non solo perché si scambiano informazioni, ma perché provano a costruire una comunione. Le parole devono essere quindi come dei ponti gettati per avvicinare le diverse posizioni, per creare un terreno comune, un luogo di incontro, di confronto e di crescita». In Fratelli tutti si afferma la possibilità di un cammino di pace tra le religioni perché «il punto di partenza dev’essere lo sguardo di Dio. Perché Dio non guarda con gli occhi, Dio guarda con il cuore» (FT 281).

Nello sguardo poetico e contemplativo di papa Francesco, la profezia del Regno e la realtà storica devono nuovamente incontrarsi come narra il salmo 85: «La sua salvezza è vicina a chi lo teme e la sua gloria abiterà la nostra terra. Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno». L’incontro inizia sempre di nuovo quando donne e uomini alzano lo sguardo per vedersi l’uno nell’altro.

Querida Amazonia ha anche inserito nel testo parole di poeti e scrittori; Francesco è convinto che l’arte della parola poetica abbia la capacità di comunicare una più alta visione del reale. «Le parole devono divenire come dei ponti gettati per avvicinare le diverse posizioni, per creare un terreno comune, un luogo di incontro, di confronto e di crescita», (Nei tuoi occhi è la mia parola, Rizzoli Milano 2016).

Dove abitò la tortura

Molti sono gli alberi
dove abitò la tortura
e vasti i boschi
comprati tra mille uccisioni.
(Ana Varela Tafur, Timareo, in Lo que no veo en visiones, Lima 1992)

Esiliano i pappagalli

I mercanti di legname hanno parlamentari
e la nostra Amazzonia non ha chi la difenda […].
Esiliano i pappagalli e le scimmie […]
Non sarà più la stessa la raccolta delle castagne.
(Jorge Vega Márquez, Amazonia solitária, in Poesía obrera, Cobija-Pando-Bolivia 2009).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it

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