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«Entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato“. Allora ho detto: “Ecco, io vengo- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7). È un frammento della Lettera agli Ebrei ispirato dal salmo 40: “Gli orecchi e tutti i miei sensi hai aperto all’ascolto, il desiderio hai acceso: la tua parola nel mio intimo, così non ho nascosto la tua giustizia dentro il mio cuore, né il tuo amore e la tua fedeltà, neppure ho tenuto le labbra chiuse ho proclamato invece tra la gente la tua cura per la vita”. L’autore della Lettera agli Ebrei intende così esprimere la sua fede nella Parola che si fa carne, nel Verbo che era da principio e che ora, nella umiltà dell’esistenza umana, prende come sua dimora un corpo a lui preparato.

Accadde che la smisuratezza della parola di Dio si fece così piccola e angusta da assumere la natura di un corpo concepito e generato in umanità. Ma fu solo breve momento, per quanto fondamentale, della storia umana. Il Verbo che dapprima si rapprese in un uomo, nel volgere di poco si dispiegò al mondo, come un libro srotolato, allungandosi, distendendo gambe e braccia, operando con le mani, muovendo i piedi e, passo dopo passo, facendo strada sui sentieri della nostra umanità, crescendo in sapienza, statura, età e grazia per dire e fare le parole e i gesti di Dio, quelli della sua compagnia tra noi. Corpo preparato alla Parola perché divenga dono udibile, afferrabile, visibile attraverso le molteplici scritture e riscritture di una persona viva, che ascolta e risponde, imprime ed è impressa, inspira ed espira, piange e ride al modo in cui un corpo vive.

“Corpo/vivente”: non sono due, spirito e corpo; neppure il verbo da un lato, prioritario, assorbente, e il sentire del corpo dall’altro, secondario, scorporato. L’endiadi, una realtà per mezzo di due, esprime un unico e indissolubile corpo esistente e senziente: vivo. Corpo/vivente, “viatico di presenza”, un intreccio di vicinanza e lontananza, che tiene uniti estraneità e prossimità, familiare e straniero ad un tempo; vero pane di viaggio, che nutre la vita e si lascia nutrire da essa. Il corpo, pertanto, non solo oggetto ma soggetto, realtà non solo plasmata, modellata, ma ad un tempo forgiante, educante, perché a sua volta forma e sapere viventi, materia che è accolta ma pure ospitale, in quanto ospitante lo spirito. In breve: il corpo/vivente, reale, simbolo di ospitalità promessa.

Nell’antichità con il termine ‘simbolo’ (dal verbo symballo/gettare, riconoscere, mettere insieme) si indicava anche la ‘tessera hospitalis’, o hospitalitatis, un anello o altro contrassegno che si rompeva in due pezzi, da conservare come documento di riconoscimento, di garanzia, perché servivano a comprovare, una volta riuniti, l’ospitalità data e ricevuta, l’autenticità della relazione e del riscontro. La valenza simbolica del “vivente corpo” porta alla luce la necessità di darsi agli altri e di dirsi a se stessi, nella forma propria del simbolo che è quella dell’ambivalenza, vale a dire un’unica realtà che si presenta sotto due aspetti e valori differenti: una presenza simultanea di valori anche estranei, opposti o conflittuali, ma indissociabili, indivisibili.

Il ‘corpo/vivente’ esprime l’uomo nel suo essere al mondo: così il mondo, secondo l’espressione di Maurice Merleau-Ponty [Qui], viene ad essere «il corpo allargato dell’uomo», mentre il corpo da parte sua è «il cardine del mondo», il mondo addomesticato. In quanto simbolo, il corpo è allora anche linguaggio e sacramento; è atto ed esperienza comunicativa, relazione che unisce. La vocazione di ciò che è spirituale nell’uomo non è quella di tacitare, diluire o far evaporare ciò che è corporeo. Al contrario questi non deve soffocare lo spirito schiacciandolo sotto il suo peso: entrambi sono chiamati a custodirsi reciprocamente, a corrispondersi nella pratica dell’ospitare, del prendersi cura della diversità ed estraneità dell’altro. «Egli infatti non si prende cura degli angeli [incorporei], ma della stirpe di Abramo si prende cura», (Eb 2,16).

«Luogo di trasbordo» è così il corpo/vivente, un valico tra il mondo di dentro e il mondo di fuori, tra natura e cultura, tra individuo e società. La riflessione e la ricerca portate avanti dal pensiero fenomenologico hanno aperto un varco oltre il dualismo platonico, che ha influenzato in positivo e in negativo anche il pensiero delle origini cristiane e quello cartesiano, che separava la realtà psichica, cogitante, libera, consapevole, illimitata, dalla realtà fisica, limitata estesa, inanimata. Si è sviluppata così una riflessione sul sensibile, a partire dal corpo come unità vivente della persona umana, un’unità insieme attiva e passiva, di soggetto e oggetto, di percezione ed intuizione, di sensibilità e intellezione.

L’affiorare in questa unità nella differenziazione, sia dell’alterità ed estraneità degli altri, come dell’estraneità sentita in se stessi, sollecita e invoca un’etica della responsabilità, “responsiva” direbbe Bernhard Waldenfels, che invoca il dono e il compito di una risposta proprio a ciò che accade imprevisto e non dipendente da me: l’incontro con l’altro, lo straniero non appena fuori, ma con lo straniero che io sono a me stesso.

Nella fede si entra certamente per la via intellettiva e per quella etica; e tuttavia esse sono vie seconde, non secondarie però rispetto a quella principale che è quella relazionale, vivente dell’incontro dialogico dei corpi. Di qui un primato della relazione rispetto ad ogni tentativo di razionalizzazione o moralizzazione dell’esperienza della fede. «Il corpo è un anelito e un peso; un richiamo e una distanza da percorrere. Il corpo esprime gioia e debolezza, incanto e aridità, peso e levità. [Il corpo d’amore] è fatto di gocce di balsamo e di immensità assetate di deserto, di rari fotogrammi di assoluta chiarità e di lunghe pellicole di buio. Il corpo sarà nutrito di giorni e giorni di fame, notti e notti di lacrime e di assenza», (R. Virgili, Servitium, 1-2, 2005, 40).

Distanza da percorrere è il “corpo/vivente”: quella orientata verso la promessa di trasformarsi, trasfigurato, in un corpo/glorioso. L’incarnazione del Verbo e il mistero pasquale, di morte e risurrezione, hanno ispirato di senso e di speranza la nostra forma carnale. Hanno seminato nel corpo un credito ignoto e un futuro imprevedibile. Si dà allora una buona novella anche per il corpo: un vangelo è nascosto in esso, ben più che straniero, ospite e pellegrino in mezzo a noi che chiede di essere ospitato per ospitarci e renderci familiari suoi e a noi stessi.

Il poeta Carlo Betocchi [Qui] dedica a questa “distanza da percorrere” a questo destino glorioso che attende il “corpo/vivente” una sorta di inno liturgico: «Tu concedesti di vedere il tuo corpo che s’avanza!… Lui che mi dette con la vita il corpo,/ questo campo robusto che assicura/ l’anima, in cui alligna e matura la grazia,/ Lui non ha avuto paura che mi guastassi,/ che perdessi la fede: ed ha lasciato/ che il nemico infierisse. Che cos’è/ che voleva, allora, se non che alla fine/ mi ricordassi che non si vive di solo/ pane, e nemmeno soltanto di grazia,/ ma anche di buio coraggio di quando/ Lui può mancarci: e occorre rifarlo in noi,/ e riconoscersi vivi nei gemiti/ delle montagne squassate dai terremoti,/ perché l’evenienze del mondo sono/ infinite, le catastrofi miserevoli/ e senza alcuna spiegazione plausibile/ alla nostra esigenza d’amore. Lèvati/ allora, e datti da fare col tuo/ coraggio. Dio ti riconoscerà per suo», (Tutte le poesie, 517; 571).

Il corpo/glorioso è così ferito da una fiamma di amor vivo. È l’amore che glorifica il corpo errante dell’homo viator. Quell’amore resosi straniero ai viandanti verso Emmaus. La sua gloria è l’amore del corpo crocifisso e risorto; il Corpus Domini che rincuora, apre gli occhi, rimette in cammino, pone sulle labbra l’annuncio pasquale che narra l’incrociarsi delle sorti, lo scambio dei destini: colui che ha scambiato il suo destino di vita con il nostro destino di morte, il suo corpo di gloria con il nostro di carne ha pure condiviso il pegno della sua risurrezione, il suo corpo/glorioso in un pane spezzato come cibo dato a tutti perché diventi un solo corpo. «Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto è diventato una cosa sola, così si raccolga la tua Chiesa e l’umanità dai confini della terra nel tuo regno», (Didaché, IX, 4) e ci ricorda Paolo: «Il nostro corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo» (1Cor 6,13).

Scrive il poeta inglese John Donne: «I misteri d’amore crescono nelle anime, ma il nostro corpo è il libro dell’amore», (nella traduzione poetica di Cristina Campo).

La fede cristiana ha conosciuto la tentazione gnostica come fuga dal corpo e esaltazione di una conoscenza, di un sapere e pensiero disincarnati, rimandando indietro Dio nel suo empireo celeste ‒ una torre senza porte e finestre ‒ privandolo così del suo luogo più proprio: la relazione con il mondo e con la libertà dell’uomo. L’esperienza cristiana è vita secondo lo spirito ‒ ci ha ricordato Karl Rahner [Qui] ‒ che si realizza nel corpo e attraverso il corpo. Questi è l’esistenza concreta dello spirito nello spazio e nel tempo, la corporeità umana è il suo luogo rivelatore, tanto che facendosi ospitale dello Spirito, ogni uomo entra a far parte del corpo vivente di Cristo, e in lui viene seminato il suo corpo glorificato, caparra e primizia di umanità nuova.

La svalutazione del corpo, originata dall’influenza di correnti di pensiero estranee al mondo ebraico-cristiano, si è fatta a lungo sentire anche nell’esperienza cristiana e nella sua spiritualità. Fin dai primi secoli una rigida ascesi penitenziale, manifestava un disprezzo evidente della carnalità, considerata come la sorgente del male.

LA STORIA DI ANASTASIO

Si narra di un monaco nel deserto egiziano che, volendo raggiungere la perfezione spirituale con una durissima ascesi corporale, cominciò a sentire sempre più il peso del suo corpo e a disprezzarlo, perché sembrava trattenerlo e rallentare le sua ascesa; così, volendo significare il desiderio di separarsi da esso come da una zavorra, si amputò una falange del dito e lo seppellì accanto alla sua cella, come a ricordagli che al cielo e non alla terra, allo spirito e non al corpo era volto ogni suo desiderio.

Alla sera, rientrato nella cella e raccolto in preghiera, aprì a caso il libro delle Scritture e iniziò a leggere. Vi si narrava della visione del profeta Ezechiele che, condotto dallo Spirito in alto sopra i cieli, fu poi deposto in mezzo a una valle piena d’ossa. Profetizza su queste ossa – disse lo Spirito: “Ossa inaridite Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete”. A quelle parole Ezechiele senti un rumore, vide movimento fra le ossa, che si accostavano e si corrispondevano l’una all’altra. Poi vide ancora sopra di esse i nervi, la carne che cresceva e la pelle che le ricopriva, ma non c’era spirito in loro. Così Ezechiele profetizzò di nuovo e annunziò su quei cadaveri lo Spirito: “Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”. In quel momento lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi.

Anastasio, questo era il nome del monaco ‒ che significa risurrezione ‒ non poco turbato da quella lettura si addormentò pensieroso. Il mattino uscendo dalla cella si accorse che qualcosa era cambiato. Nel luogo del seppellimento di quel frammento del suo corpo era cresciuto un gelsomino bianchissimo e un profumo soave si era diffuso tutt’intorno e una siepe cingeva tutta la cella. Con la mano sfiorò appena il gelsomino e non poté proprio non sentirne il profumo, ne rimase inebriato. Respirò allora profondamente come non aveva mai fatto prima; sentì il suo corpo rivivere, anzi rifiorire nonostante fosse vecchio e, toccando il fiore con le dita, udì affiorare dentro di sè le parole: Corpus Domini e allora capì tutto, gli si aprì il cuore e l’intelligenza e gli occhi si sciolsero in lacrime non penitenti, ma di pacificante e umile gioia.

Fu così che gli ultimi anni li visse errando alla ricerca di quella compassione di Dio per il Suo corpo umiliato, mutilato e disprezzato nei corpi di tutte le sue creature. E ogni volta che vedeva una pietra, un albero, una pozza d’acqua, le stelle, un gregge con il suo pastore, una famiglia in viaggio, un lebbroso, un funerale, bambini che giocavano, sposi che andavano a nozze e cristiani raccolti nella chiesa la domenica attorno alla mensa eucaristica, si fermava, faceva una metania, una prostrazione profonda e sentiva salire dal cuore fino a divenire pensiero e voce interiore il nome del corpo/glorioso: Corpus Domini.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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