Immaginare, lungi dall’emulare, è come generare, o meglio farsi portatore di un altro. L’immagine è grembo del pensiero, che attraverso la corporeità sensibile viene alla luce e riceve la sua forma. In questo processo non può prescindere dalla relazione all’altro che si rivela, e implica perciò l’attesa operosa. È quindi, al contempo, ospitalità e raccoglimento, l’essere soglia e dimora, una distensione in tensione, ovvero – come direbbe Clemente Rebora – “Immagine tesa”.
Ne La Vita cosmica Pierre Teilhard de Chardin scrive «Anzitutto espongo vedute ardenti […] Ma non è permesso all’uomo innamorato della verità e della realtà abbandonarsi indefinitamente e con incoerenza a ogni vento che gonfi e amplii la sua anima. Anche se lo volesse, non lo potrebbe fare… Per la stessa intima logica degli oggetti e degli atteggiamenti, viene presto o tardi il momento in cui dobbiamo infine disporre in noi l’unità e l’organizzazione, mettere alla prova, selezionare, gerarchizzare i nostri amori e i nostri culti, rovesciare i nostri idoli e lasciare un solo altare nel santuario» (26-27).
Questo luogo di rivelazione, di autenticità e offertorio cui allude Teilhard de Chardin altro non è che la nostra coscienza. E riscoprirne l’integralità, la sua struttura simbolica, significa divenire consapevoli che in essa non si dà separazione tra pensiero e immaginazione, tra concetto e valore. L’istanza etica (il bene) e quella estetica (il bello) formano con il vero un’unità attraente, desiderabile, appetibile per coscienza e la libertà in essa, quando cerca la strada del proprio comprendersi e conoscersi, quella dell’ ‘intelligere’ il reale per trovare, passo dopo passo, figura dopo figura, azione dopo azione, il senso e la verità di se stessa e del mondo in cui dimora.
Così Pierre Teilhard de Chardin, assumendo la valenza immaginativa e simbolica per esprimere il suo pensiero, non solo nei testi mistici, ma anche in quelli scientifici come visioni e modelli su cui articolare la propria riflessione, li anima di un’intelligibilità nuova, di una “ratio imaginis”, di un senso, di un orientamento, di una razionalità che scaturiscono dall’immaginazione, dispiegando un ambiente che ospita lo spirito e il corpo, la ragione e la libertà, e per questo muove alla scoperta e all’azione.
La forza dell’immaginazione non è solo quella di operare un’integrazione dei vissuti, ma di essere vettore creativo e pure soglia di superamento e di interiorità per le esperienze fatte e i vissuti stessi. Attingendo alla memoria per protendersi sull’avvenire, l’immaginazione sta in mezzo tra passato e futuro, tra archetipo e creazione, originale e riproduzione, è ad un tempo ancorata e libera. Essa genera una stabilità protesa, un “rimanere” in movimento, una passività creativa, che attinge alla storia per generare altre storie. Anche per questo Teilhard direbbe che l’immaginazione non è fenomeno secondario, o peggio accessorio (epifenomeno), ma una realtà che veicola in germe l’energia di tutto il “fenomeno umano”. Al punto che immaginare può considerarsi il mezzo tramite il quale l’intelletto compie l’atto stesso del suo conoscere.
Come nasce infatti un’idea? «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; un’altra sul terreno sassoso, un’altra cadde sui rovi, un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno» (Mt 13,3-9). Idea è voce che attinge al verbo eidèo connesso al senso del vedere, del mostrarsi, dell’apparire, come il venire alla luce di un’immagine.
La prima tappa di questo processo consiste pertanto nella semina interiore sulle orme del prodigo seminatore; nel terreno della coscienza, come in un caleidoscopio, vengono seminate le immagini che si formano attraverso il sentire complesso e scompigliato dell’esperienza.
La seconda tappa dipende dalla capacità di mettere in relazione e generare sintonie e accordi: trovare e stabilire legami, sinapsi, congiunzioni tra le immagini che si accumulano con l’esperienza. L’idea si origina da una capacità combinatoria con altre e precedenti immagini, che danno vita a nuove combinazioni. Per questo essa richiede una propensione alla ricerca e al cambiamento, all’invenzione. Viene così in mente l’immagine evangelica della vite ed ei tralci (Gv 15, 1-11), una sequenza di immagini che si rincorrono cangianti in molteplici e fantasiose direzioni e si protendono in uscita oltre la vite, figura questa di una stabilità in movimento, che si sviluppa nei tralci e si amplifica rivestendosi di forme nuove, di iridescenti foglie e pampini, inflorescenze e grappoli che sono, come l’idea attesa, il frutto del suo travaglio: i suoi gioielli.
Vi è poi un terzo momento che attende al formarsi dell’idea. Un ulteriore passaggio che può essere reso con un’altra immagine del vangelo: «è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,26-28). Ecco: simile è il processo di gestazione e sviluppo nella coscienza del pensiero. L’idea, per venire alla luce, ha bisogno infatti di riposo, di nascondimento, una sorta di gestazione delle immagini in cerca di combinazioni. È questo il tempo in cui nella coscienza si attua una sintesi di ciò che in essa è molteplice, e che si sviluppa e viene fissato a un livello più profondo della stessa coscienza: le immagini latenti vengono introdotte nella camera oscura dell’inconscio.
L’attesa pensierosa e sospirata di maternità in questo tempo senza tempo dell’affiorare dell’idea verrà interrotta solo dalla gioia del suo apparire alla coscienza. Certamente un punto di arrivo, che tuttavia diviene un nuova partenza. Come ogni nascita, infatti, da subito dovrà confrontarsi e misurarsi con la realtà e rigenerarsi sempre di nuovo in essa. Così la realtà sarà il terreno di verifica dell’immaginazione e dei suoi frutti. Sulla soglia fra reale e immaginario essa deve sempre discernere tra due alternative, una che la condurrà ad essere «maestra di errore» – come direbbe Blaise Pascal – e l’altra che la farà valere come «potenza di verità».
La coscienza di ognuno comunica con la realtà e con se stessa mediante il corpo e la sua pluriforme capacità di sentire la vita e comunicare con essa. È Tommaso d’Aquino a ricordarci che il passaggio dall’ignoranza alla scienza deve essere attribuita direttamente al corpo e solo accidentalmente alla parte intellettuale (cf. De Veritate, q. XXVI, art 3, ad 12). Per lui non si dà pensiero senza immagine, poiché le cose esistono solo nel particolare, ma il particolare, il frammento, si coglie solo con i sensi, (cf. S.Th l. q. g4 a. 7 ad 3): «il campanello/ che impercettibile spande/ un polline di suono» (Clemente Rebora).
Nelle lettere di Giovanni la spiritualità si esprime attraverso lo stile di un linguaggio sensoriale volto a comunicare l’esperienza della conoscenza e della comunione con Dio, in Gesù Cristo; non solo la sua immagine, il volto, ma pure le mani, i piedi, il suo stesso corpo: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi», (1Gv 1,1-3).
Scrive Jean-Pierre Sonnet: «Nelle nostre membra, nell’articolazione dei nostri corpi, nei nostri gesti più elementari, si nasconde un vangelo, che il linguaggio e lo sguardo poetico (immaginazione poetica) portano alla luce», (La scorciatoia divina, 5). E citando una cantica del 1680 Le membra del nostro Gesù, egli evidenzia come l’immaginazione, soffermandosi sui versetti del vangelo che si riferiscono al corpo di Cristo in croce contempli i piedi, le ginocchia, le mani, il costato, il petto, il cuore, la testa. Il corpo di Cristo diviene così come il sentiero più breve e diretto per arrivare a conoscere il Padre, come chiedeva con insistenza l’apostolo Filippo a Gesù: «Mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,8-9). E il poeta gesuita Gerard Manley Hopkins così scrive: [il Cristo] «come Martin pescatore guizza, come libellula attrae la fiamma; in ognuno dimora, si attua, corre le sue vie; attua di fronte allo sguardo di Dio ciò che nello sguardo di Dio egli è: Cristo. Gioca (play) in diecimila posti, amabile (lovely) nelle membra, in occhi non suoi, amabile a Dio Padre, nei tratti dei volti umani», (Poesie, 99).
L’immaginazione ha nel corpo di Cristo il suo evangeliario, e nel pane eucaristico vede la moltitudine dei credenti, dapprima seduti alla mensa con lui a spezzare il pane e poi incamminati, in via, a condividerlo ad ogni incontro. L’immaginazione distende così, lungo la storia dell’universo come un planetario di relazioni, quell’ambiente umano e divino del suo corpo reale e mistico, unità e miriade, monade e pleiade del suo corpo cosmico (Teilhard de Chardin).
In questo testo poetico di Clemente Rebora l’“immagine tesa” è invito a vigilare uno sbocciare che ancora non si vede; sguardo, attento com’è all’istante, di rendere visibile l’udibile: un suono, un bisbiglio, figure d’ombra, profumi, intravedendo alla fine, stupito, nell’attesa di “nessuno” il venire di qualcuno:
Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.
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Andrea Zerbini
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