L’omelia come la poesia è un fare con le parole, un metter davanti, portare alla luce, ciò che è nascosto. Far frutto della linfa interiore, un rimbalzo, un rigioco, un fluire di ciò che è sorgivo nello spirito impressionato dal reale. Un sentire nel profondo, a volte calmo a volte irruente, di pensieri e immagini e suoni per provare a dire l’indicibile. Approssimarsi almeno un poco all’arcano; o meglio avvicinarsi all’indicibile e all’inimmaginabile dell’arcano, di quello scrigno segreto, arca sigillata che abita il nostro vivere.
Allora, pensando a Ungaretti, mi vien da azzardare e dire che l’omelia come “la poesia porta in sé un segreto” (Incontro con Giuseppe Ungaretti, a cura di Ettore Della Giovanna, 1961). La parola, ricorda ancora Ungaretti, “è impotente e non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi… [La parola] non si è mai espressa veramente, si è sempre scontenti… si vorrebbe che fosse detto diversamente ma la parola… la parola… non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, si avvicina”. Viene all’improvviso e non sai perché. Devi solo avere attenzione, quella del pescatore per i pesci, e lo sguardo intento al movimento del sughero sull’acqua. Creatura che porta il creatore è la parola, che balbetta l’infinito nel finito, una parola sempre in cerca nell’abisso di parole vere. Una ricerca non dissimile da quella proposta da Gregorio di Nissa a commento della parabola del tesoro nascosto: il campo è il libro delle scritture e le parole nascoste in esso sono il suo tesoro; colui che ara è il Cristo e, alla sua sequela, il discepolo chiamato a trarre dal buon tesoro del vangelo cose nuove e cose antiche, senza scordare, però, che solo la croce, rovesciata a mo’ di aratro, come un vomere che solca la Parola di Dio, la renderà intelligibile alla mente e al cuore.
Come non pensare allora alla poesia in Porto sepolto dal titolo Sono una creatura: “Come questa pietra/ del San Michele/ così fredda/ così dura/ così prosciugata/ così refrattaria/ così totalmente/ disanimata/ Come questa pietra/ è il mio pianto/ che non si vede/ La morte/ si sconta/ vivendo”. Così è della parola: deve morire ogni volta che vien pronunciata se vuole vivere e nascere di nuovo, quasi a dire che la parola si sconta nel silenzio.
La fede di chi sale l’ambone è credere che la pietra di san Michele, il pianto nascosto del poeta ed il suo, siano la stessa pietra ribaltata dal sepolcro di Gesù, ormai vuoto. Pietra fredda, dura, senz’anima, refrattaria, la parola della fede si sconta vivendola e vivendola nel silenzio. E solo alla fine, e per poco, confluisce nell’omelia, che diventa il mostrarsi, il rivelarsi del segreto della tua anima innamorata del mistero nascosto, ma resosi visibile in Gesù e nel suo vangelo. Parole che ri-veleranno sì, ma non potranno che velare di nuovo il mistero che hanno osato proferire.
Come una poesia “una buona omelia ‒ scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium ‒ deve contenere un’idea, un sentimento, un’immagine… L’omelia può essere realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita… L’omelia è un riprendere quel dialogo che è già aperto tra il Signore e il suo popolo. Chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dov’è vivo e ardente il desiderio di Dio, e anche dove tale dialogo, che era amoroso, sia stato soffocato o non abbia potuto dare frutto… È comunicazione tra i cuori dalla natura quasi sacramentale: “La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10,17). Nell’omelia, la verità si accompagna alla bellezza e al bene”.
“L’annuncio annunciato: l’interpretazione come omelia”, è il tema sviluppato da Eugen Dreewermann nella sua introduzione a Il Vangelo di Marco. Immagini di redenzione, Brescia 1995, 94-95: “Un’interpretazione della Bibbia, dunque, sarà all’altezza del testo solo quando diventerà anch’essa ciò che sono per loro natura i testi della Sacra Scrittura: un annuncio. Allo stesso modo in cui abbiamo ‘capito’ davvero una poesia solo quando suscita nel nostro intimo un’eco, che prende a sua volta forma poetica, è possibile capire la parola di Dio soltanto quando ne scorgiamo la verità nella nostra vita. Solo quando e perfettamente chiaro il punto in cui un testo biblico è stato decisivo per la nostra vita, allora, e solo allora, e possibile trasmettere agli altri una parola di Dio che avrà la convalida della nostra esistenza e che sarà quindi per questo una parola di fede… Solo chi prova un entusiasmo interiore ha il diritto di richiamarsi allo ‘Spirito’ – solo chi vive l’ispirazione parla ‘spiritualmente’ in senso religioso. Non c’è ministero, ne rituale, ne incarico ufficiale della chiesa che possa sostituire questo sentire la voce di un silenzio aleggiante – sibilus aurae tebuis – (1 Re 19, 12), che e l’unico modo in cui si rivela Dio”.
In modo più sintetico ma non meno efficace, Romano Guardini nel suo Diario, Brescia 1983, 190 fa un’annotazione significativa: “Uno scrittore è un uomo nel cui pensiero il nascere della forma s’avvia già nella prima impostazione della ricerca dell’intellezione. In lui la semplice questione della verità non esiste; è sempre collegata con il ‘come’ dirla, con il processo di strutturazione. Bello e difficile nello stesso tempo… Ne deriva il subisso dei compiti. Ogni predica potrebbe diventare un’opera”.
C’è una storia rabbinica che aiuta a ‘volare bassi’ quando si sale all’ambone: «Quando gli abitanti di un villaggio della Palestina chiesero a Rabbi Yehuda Hanassi di inviare loro per maestro uno dei suoi migliori allievi, questi raccomandò loro Rav Levi, profondo erudito e brillante oratore. II nuovo maestro arrivò e la folla lo coprì di elogi, facendolo salire su un palco dal quale pronunciare il suo primo discorso di Torà (Legge). Ma quando Rav Levi volle aprire bocca non ne uscì neppure un suono. Il suo spirito era vuoto, come se avesse tutto dimenticato. La folla cercò di incoraggiarlo con qualche domanda, ma Levi restò muto. Confuso e umiliato tornò dal suo maestro e raccontandogli l’accaduto aggiunse delle parole simili a queste: Rabbi, mi rendo conto adesso che al momento di salire sul palco ho provato un soffio di fierezza che ha cancellato tutte le mie conoscenze di Torà”. Un’esperienza per nulla singolare, tanto che già il Trattato dei Padri nel Talmud insegna: “Non fare delle parole della Torà una corona per te ingrandendoti con esse”. Come rivela la vicenda di rav Levi, nemmeno per i maestri la conoscenza delle sacre Scritture non è un possesso acquisito. “Essi la possono soltanto ospitare e tutto il loro studio altro non è che il tappetino di ingresso di una soglia che la Torà varcherà solo se ben ripulito dalla polvere dell’orgoglio”.
In occasione della festa dell’Assunta del 1995, terminate le celebrazioni, nonostante il caldo, sentii che dovevo scrivere come mi sentivo dopo quel torneo omiletico. Ero quasi a casa di mio padre, la pasta ormai scotta, ma dovetti fermarmi a scrivere parole assordanti che invocavano il silenzio.
Parole mie nel silenzio
Mi spaventa Signore
armeggiare con le parole,
la domenica, dal pulpito
Ogni volta
un torneo cavalleresco
Ogni volta la paura di un agguato
Una volta ancora
a fronteggiare
uno sfidante
invisibile e muto.
Così è il silenzio
di chi ti ascolta:
dentro la mitezza della forma
un guerriero si nasconde
e dice: “Dov’è il tuo Dio?”
Ogni mio colpo
rimbalza indietro
più forte.
Ogni affondo
trafigge anche me
e dopo ogni sfida
sono esausto e vuoto.
Mi sgomenta Signore
duellare, la domenica,
con la tua Parola affilata
Lama a doppio taglio
che incrocia
le mie parole spuntate
e senza filo,
lama contro lama,
per saggiarne la tempra.
Le mie parole
nella Tua,
forgiate come ferro rovente
nel crogiuolo,
sprizzano scintille
ad ogni colpo.
Signore raffredda
le mie parole esauste
con la frescura
del silenzio:
tinozza di fabbro
Parole mie,
consolate dalle acque,
come arbusti di golena
sommersi
dalla piena del silenzio,
quello tuo, Signore
mescolato al fango,
che grida muto,
il dolore della vita.
Parole mie,
salvate dalle acque
del silenzio
per riaffiorare parole vere.
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Andrea Zerbini
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