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Parole e poi ancora parole: una verbosità che si riversa nelle nostre esistenze come una cascata in piena, inarrestabile e travolgente. Siamo preda delle nostre stesse parole, a volte vuote, altre minacciose, spesso inadeguate o incoerenti, ma anche profonde e piene di significato. Parole che esprimono il nulla, che mimetizzano o occultano ciò che la mente realmente formula perché disoneste, che saltellano su terreni di superficialità e faciloneria beffandosi dell’effetto che producono, che accompagnano toni ostili, aggressivi, rancorosi, creando falsi giudizi, ansia, rifiuto e odio. Oppure esercitano il loro fascino artefatto sul piano virtuoso dell’eleganza stilistica o, ancora, sottolineano l’argomentare appassionato, acquisendo valore e peso nella loro espressione più genuina.
Le parole riempiono le nostre giornate e scandiscono il tempo, scomparendo nel vuoto o lasciando una scia, una traccia, un ricordo a volte indelebile. Le parole hanno il potere di creare o distruggere, sono dei proiettili o dei salvagenti, possono colpire e ferire nel più profondo, illudere, ammaliare, donare felicità e, nonostante lo scrittore Elias Canetti (1905-1994) sostenesse che non esistono più parole potenti e la stessa parola ‘Dio’ venga pronunciata senza la forza primitiva, esse mantengono integra la loro funzione e attraverso la loro evoluzione e trasformazione nei tempi, raccontano il percorso stesso dell’umanità.

Parole che scompaiono, sopravvivono, cambiano, si contaminano. E se le parole hanno valore, altrettanto apprezzabile è il silenzio, che ne costituisce l’ombra di esse e si rivela, a volte, molto più convincente, incisivo e appropriato. Forse ci dobbiamo riappropriare del silenzio, di quella sospensione da ogni suono e strepito che crediamo l’unico mezzo di comunicazione convincente e vincente.
Non si tratta di quel silenzio delle coscienze che sottende omertà, indifferenza e disimpegno che hanno un impatto sociale rovinoso e devastante, ma quella condizione di riflessione, distacco da tutto ciò che distoglie, anche solo temporaneamente, dalla dimensione veramente umana, dall’ambiente naturale che ci circonda, dai valori pieni a cui tutti abbiamo diritto di attingere.  Non è il silenzio dell’invidia e del rancore, quello di chi non ha idee chiare e nemmeno quello della sconfitta e dell’annichilimento dettato dalle guerre, dalla fame, dalla sopraffazione della disumanità, che toglie la parola ed è una dichiarazione di resa senza condizioni.
Si tratta piuttosto del silenzio della dolcezza e della comprensione, quella condizione di abbandono che alleggerisce, toglie il piombo dall’anima e ci ricorda che non siamo nati per snaturarci, venderci a chi grida più forte, opprimerci con pensieri che generano azioni devastanti. Il silenzio è un vuoto, inteso come uno spazio privo di distrazioni in cui ciascuno di noi ha la possibilità di immergersi nei propri pensieri autenticamente.
Non siamo più abituati al silenzio; l’impulso di sostituire le parole a un tempo di pausa in cui soffermarci al pensiero interiore, non appartiene alla nostra epoca. Lo dice anche Tiziano Terzani, scrittore e giornalista (1938-2004): “Mai come oggi il mondo avrebbe bisogno di maestri di silenzio e mai come oggi ce ne sono così pochi. Bisognerebbe averli nelle scuole: ore 10.00, lezione di silenzio. Una lezione difficile perché, sintonizzati come siamo sulla costante cacofonia della vita nelle città, non riusciamo più a ‘sentire’ il silenzio”.

Nella consapevolezza di questo, ci stiamo costruendo delle isole artificiali in cui il silenzio diventa un bene di lusso da raggiungere economicamente, ed ecco apparire l’industria del benessere che trasforma il recupero di antichi monasteri in resort, prestigiosi e richiestissimi, in cui lo stato di ‘mindfulness’ si paga cash, come un qualsiasi bene, per essere messi a contatto con le priorità della vita, con i valori che contano, con le nostre stesse caratteristiche e identità di uomini. Esistono comunità, come le ‘pustinikki’ russe (trad.: abitanti del deserto) che nelle foreste della Russia – ed esportati nel Canada, come negli Usa –  nel silenzio sono disposti ad accogliere chi si rivolge loro nel bisogno.
C’è chi descrive l’esperienza del silenzio in condizioni ambientali apparentemente difficoltose ma realmente appaganti, in una tenda nel Sahara, sulle pendici dell’Himalaya, nel Borneo piuttosto che in una scuola di meditazione in India, Birmania, Bali. Non è questione di latitudine geografica o cultura millenaria da riscoprire e riabbracciare, magari seguendo le tendenze del momento: è qualcosa di più vicino a ciascuno di noi e che merita di essere ascoltato, indipendentemente dal nostro status, dalla nostra appartenenza geografica e identitaria, dalle nostre possibilità economiche o dall’influenza delle nostre frequentazioni. Le parole valgono, e valgono moltissimo. Il silenzio è altrettanto necessario, se ambiamo a vivere la nostra umanità pienamente, onestamente, concedendoci gli spazi necessari per non perdere di vista la nostra completezza. E questo è alla portata di tutti.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).


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