Rubrica a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini
La stessa parola della lingua portoghese scelta dall’autore per il titolo, quel “desassossego”, esprime un particolare status esistenziale che è impossibile cogliere a pieno e quindi ‘tradurre’ in qualsiasi altra lingua; e complessa, ricchissima, immaginifica, profonda è tutta l’opera che in italiano è conosciuta come Il libro dell’inquietudine. Un’opera postuma, un libro non-finito e infinito. Il capolavoro di Fernando Pessoa non è classificabile in nessun genere letterario. Quasi un diario, ma molto di più di un diario, che forse si può accostare solo ad un altro grande giacimento letterario, scritto circa cento anni prima, Lo Zibaldone di Giacomo Leopardi. Fernando Pessoa sceglie per Il Libro dell’Inquietudine uno dei suoi eteronimi: il narratore principale (ma non esclusivo) delle centinaia di frammenti che compongono il libro è Bernardo Soares, aiutante bibliotecario nella città di Lisbona.
Il brano che qui presentiamo è stato tradotto per l’occasione da Amelia Monini, la lettura è affidata a Massimiliano Piva. Fernando Pessoa non è autore facile da interpretare, a entrambi va quindi un grazie particolare.
(I Curatori)
Fernando Pessoa (Bernardo Soares),Tace alto il paesaggio del cielo, tratto da: Livro do Desassossego, traduzione di Amelia Monini, lettura di Massimiliano Piva
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Incipit in lingua originale:
17/10/1931
Sim, é o poente. Chego à foz da Rua da Alfândega, vagaroso e disperso, e, ao clarear-me o Terreiro do Paço, vejo, nítido, o sem sol do céu ocidental. Esse céu é de um azul esverdeado para cinzento branco, onde, do lado esquerdo, sobre os montes da outra margem, se agacha, amontoada, uma névoa acastanhada de cor-de-rosa morto.
TACE ALTO IL PAESAGGIO DEL CIELO
17/10/1931
Sì, è il tramonto. Giungo alla foce di Rua da Alfândega, lento e disperso, e, allo schiudersi di Terreiro do Paço davanti a me, vedo, nitida, l’assenza di sole nel cielo occidentale. È un cielo di un azzurro verdognolo che vira al grigio bianco, dove, sulla sinistra, sopra ai monti dell’altra riva, si acquatta, ammucchiata, una nebbia brunita da un rosa smorto. C’è una grande pace che io non ho; si disperde freddamente per l’astratta aria autunnale. Soffro di un vago piacere nel supporre che essa esista. Ma, in realtà, non c’è pace o assenza di pace: soltanto cielo, cielo di tutti i colori che languiscono – azzurro bianco, verde ancora azzurrognolo, grigio pallido tra il verde e l’azzurro, vaghi toni remoti di colori di nuvole che non lo sono, giallamente illividite da un rosso scomparso. E tutto questo è una visione che si estingue nello stesso istante in cui la si ha, un intervallo tra il nulla e il nulla, alato, posto in alto, in tonalità di cielo e angoscia, prolisso e indefinito.
Sento e dimentico. Una saudade, che è quella nostalgia che tutti hanno per tutto, mi invade come un oppio di aria fredda. C’è in me un’estasi del vedere, intima e posticcia.
Verso la foce, dove il sole, svanito, svanisce sempre più, la luce si estingue in un bianco livido che si inazzurra di verdognolo freddo. C’è nell’aria il torpore di quel che non si ottiene mai. Tace alto il paesaggio del cielo.
In quest’ora, in cui sento fino a traboccare, avrei voluto la totale malizia del dire, il libero capriccio di uno stile per destino. Ma no, solo il cielo alto è tutto, remoto, va annullandosi, e l’emozione che ho, e che sono tante, unite e confuse, non è altro che il riflesso di questo cielo nullo su un lago dentro di me – un lago rinchiuso da aspri scogli, tacito, sguardo di morto, in cui l’altezza si contempla dimentica.
Tante volte, tante, come ora, mi è pesato sentire che sento – sentire come un’angustia per il solo fatto di sentire, l’inquietudine di trovarmi qui, la nostalgia di un qualcosa d’altro che non si è conosciuto, il tramonto di tutte le emozioni, ingiallirmi sfumato in tristezza grigia nella mia coscienza al di fuori di me.
Ah, chi mi salverà dall’esistere? Non è la morte che voglio, e neppure la vita: è quel qualcosa d’altro che brilla in fondo all’ansietà come un diamante possibile in una fossa nella quale non si può discendere. È tutto il peso e tutta l’angoscia di questo universo reale e impossibile, di questo cielo, vessillo di un esercito ignoto, di questi toni che impallidiscono nell’aria fittizia, da dove la crescente immaginazione della luna emerge in un biancore elettrico, fermo, stagliandosi lontana e insensibile.
È tutta l’assenza di un vero Dio il vacuo cadavere del cielo alto e dell’anima prigioniera. Carcere infinito – e poiché sei infinito, non si può fuggire da te!
Fernando Pessoa (Bernardo Soares),Tace alto il paesaggio del cielo, tratto da: Livro do Desassossego, prima edizione portoghese 1982, prima edizione in italiano: Il Libro dell’Inquietudine, traduzione di Antonio Tabucchi, Feltrinelli, 1986.
Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi
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