EPOCA DI GRANDI CAMBIAMENTI…
o un vero e proprio Cambiamento d’Epoca?
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Sono convinta, che viviamo un cambiamento d’epoca e non un’epoca di cambiamenti. Non sono l’unica ovviamente a pensarlo e l’ho sentito spiegare in modo molto efficace dalla Teologa Stella Morra in una sua conferenza di due anni fa, in cui cita Papa Francesco (la potete trovare qui)
Ma cosa vuole dire per me essere fisicamente dentro un cambiamento d’epoca? Mi pongo questa domanda anche perché in questi ultimi tempi ho guardato al mondo e a quanto ci succede da prospettive alternative, a tratti forse provocatorie, e questo ha suscitato molta costernazione e preoccupazione anche in cari amici e care amiche.
Colgo quindi l’occasione di spiegarmi e spiegarmelo, sapendo già, che molto probabilmente, non esaurirò l’argomento e che non sarà sufficiente a chiarire del tutto la mia operazione di rottura, ma lo faccio nella speranza che serva ad aprire un dialogo, anche con chi la pensa molto diversamente da me.
Trovarsi dentro il vortice di un cambiamento d’epoca, per me, significa vivere in un periodo storico in cui sono saltati i paradigmi che hanno sostenuto i pilastri della nostra civiltà. Significa vivere un periodo storico che, proprio per questo motivo, mostra in modo ineludibile la nostra vulnerabilità e le contraddizioni implicite. È come trovarsi dentro case le cui fondamenta sono state erose dal tempo e non sono più sicure. E’ meglio continuare a dormire dentro la casa di sempre, mettendola in sicurezza, come alcuni sostengono si debba fare, o uscire nel buio della foresta e provare a dormire all’addiaccio sonni vigili, perché accompagnati dalla paura dell’ignoto, ma portatori di nuove idee?
Io ho scelto metaforicamente di uscire nella foresta.
Sono convinta che mettere in sicurezza le fondamenta delle nostre case non sia più possibile. La natura si è ribellata e ha reso il terreno una sabbia mobile. Nessun cemento può renderlo stabile. E quando parlo di cemento parlo metaforicamente di tutte quelle proposte tecnologiche che ci vengono propinate come uniche soluzioni alla crisi. Credo infatti che stiamo vivendo prima di tutto una crisi antropologica a cui la tecnologia non può dare risposte.
Questo non vuole dire che considero che la storia che mi precede sia tutta da buttare via, compresa la grande evoluzione tecnologica che si è determinata, che non riconosco le mie radici culturali e che sono indifferente alle lotte e alle conquiste di chi mi ha preceduto e ancor meno che attento alla struttura democratica con fatica costruita in questo ultimo secolo.
Al contrario, provo grande riconoscenza verso l’umanità che fino ad oggi ha indicato una strada, che per questa ha lottato aprendo nuovi orizzonti, che ha contribuito a co-creare la realtà sulla quale si è forgiata la mia crescita personale e anche quella collettiva. Rivendico però il mio essere epifite (cit. da il mio romanzo Il mio nome è maria Maddalena, Marlin editore), per chi volesse capire di più cosa intendo. Cioè rivendico il mio diritto ad essere pianta ospitata da altre piante, ma alla ricerca della luce, della mia luce e dunque di una direzione da seguire che per me non è quella indicata dal pensiero dominante.
Ritengo infatti che ‘le colate di cemento’, metafora assai riduttiva ma efficace – sono genovese e so per esperienza diretta che le nostre strade si stanno sbiriciolando – cioè lo strapotere della tecnocrazia, siano alla base della visione meccanicistica del mondo e che proprio questa visione, privata della saggezza ancestrale della natura, sia la causa dell’erosione delle fondamenta della casa comune.
E’ dunque necessario ripensarsi antropologicamente. E’ necessario guardare alla vita e alla nostra interconnessione con la natura con una radicalità di sguardo che mette in discussione i pilastri, che hanno condotto la storia umana fino a qui. E questa radicalità coincide con quello sguardo femminista che oggi vorrebbe un nuova narrazione della storia, mutuato dalla parola incarnata delle donne. Quel sapere ancestrale infatti è ancora oggi conservato nelle nostre viscere, anche se non per molto, perché subisce appunto un attacco formidabile, proprio da chi proclama che la tecnologia sia l’unica strada che ci può salvare.
L’emergenza del virus ha messo in evidenza tutto questo. All’inizio della quarantena è apparso chiaro quanto il bloccarsi delle attività umane abbia dato fiato al nostro pianeta. Incredibile il video della terra che respira girato dalla NASA. Su fb hanno circolato splendide immagini del risveglio della natura. Lo slogan “non possiamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema”, ha colpito con grande immediatezza l’immaginario collettivo.
Ma la durata di questa consapevolezza è stata quella di un clik.
Presto è rientrata la necessità di trovare soluzioni semplificate a problemi complessi. La ripresa della ‘Economia’ imponeva protocolli vincolanti, uguali per tutti. Poche regole di comportamento, che tutti dovevano adottare, senza porre questioni. Anche solo il semplice guardare alla narrazione della emergenza da angolazioni differenti sembrava sovversivo. Ripeto, io mi sono attenuta rigorosamente alla quarantena, un po’ per mia personale salvaguardia e certamente anche perché avvertivo la gravità della situazione. Ma la narrazione terrorizzante, no quella non l’ho voluta seguire e per lo stesso motivo sopracitato.
Per salvaguardare la qualità della vita mia e della mia famiglia. Sapevo e credo tutti sappiano che noi siamo corpi incarnati e lo stress e la paura prolungati sono causa di ‘malessere’, per cui causa di indebolimento delle nostre difese immunitarie. Sapevo anche che prima o poi saremmo dovuti uscire dai nostri ‘rifugi/recinti’ e che, per farlo il più serenamente possibile, dovevo prepararmi a vivere con l’ignoto, accettare in profondità la nostra vulnerabilità, senza per questo essere rassegnata alla paura del futuro.
Ecco perché ho iniziato a leggere molto, ad ascoltare molte voci, voci fuori dai circuiti del pensiero dominante, causando i mal di pancia che dicevo. Le voci che ho ascoltato venivano da innumerevoli fonti, alcune fonti forse effettivamente forti e discutibili, forse troppo estreme. Ma la domanda che mi sono posta è: perché i detrattori non entravano nel merito di quello che veniva detto, ma si fermavano alla definizione delle appartenenze di chi parlava, nella convinzione che ‘dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei’?
Questo, per quanto in parte accettabile, mi ha sempre più convinto che siamo difronte a un conflitto tra due visioni del mondo e della vita.
Una visione meccanicistica estremizzata, sulla base della quale i nostri corpi sono modificabili geneticamente e programmabili, autocertificabili, in base al desiderio e non al sesso, la cura si potrà realizzare da remoto, i vaccini saranno l’unica panacea del mondo, gli algoritmi stabiliranno il bene comune e le regole di comportamento per un mondo globalizzato e omologato.
Dall’altra parte una visione, che io definisco mistica, che tiene in conto la nostra incarnazione, il nostro funzionamento biologico, ma che ritiene che questo è strettamente collegato a una natura saggia e capace di auto rigenerarsi e modificarsi, proprio perché siamo tutti diversi. Una natura fatta anche di ‘virus intelligenti’, come alcuni scienziati li hanno definiti, che ci ricordano che siamo tutti, compresi i più insignificanti e minuscoli esseri della natura, sia ospitanti, sia ospiti dell’universo. Esiste quindi una dimensione ‘sacra della vita’ (non nel senso religioso del termine, ma nel senso del ‘mistero’), che governa il nostro stare al mondo secondo leggi in continua mutazione. I nostri antenati onoravano e comprendevano tutto questo con l’osservazione e a queste si affidavano.
Ecco io ho scelto di inseguire, per quanto è possibile, questo sapere, anche se non è controllabile e non è quantificabile secondo la logica odierna, ma richiede altri parametri per essere valutato, parametri tutti da re-inventare, dunque discutibili. Quello che mi ha lasciato perplessa in questo percorso è che questo mio atteggiamento è sembrato a molti un vero attacco alle fondamenta del nostro mondo occidentale, più di quanto lo sia la nostra ostinazione ad affidarci solo ed esclusivamente a una lettura meccanicistica e tecnocratica del mondo. La complessità non è contemplata, tutto si deve ridurre a semplici formule, facilmente applicabili, perché solo queste garantiranno la sicurezza agognata; questa posizione, invece che essere contraddetta con argomentazioni che accettino la complessità, viene rifiutata tout court.
Insomma due visioni che invece di confrontarsi per eventualmente generare una nuova visione totalmente altra, pensano che il proprio compito sia quello di annientare l’altra. Io dal mio canto continuo a sperare che il conflitto/dialogo generi nuova vita. Proprio in quanto donna, conosco bene la fatica e la potente passione che abita questi periodi, perché molto simili a quello che si vive quando si è ‘in attesa’, quando si ospita il nuovo che avanza, un ospite che suscita l’ambivalenza dell’amore, rifiuto e gioia insieme.
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Roberta Trucco
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