Vite di carta. Padri
Sono stati ritrovati oggetti perduti, persone emerse dal passato. Perfino manoscritti. Ed è stata una vera fortuna per la mia amata letteratura: Manzoni insegna; anche se ha immaginato di trovare la storia di Renzo e Lucia scritta dal “buon secentista” e ha voluto giocare con ben tre narratori (e con la loro lingua), come ho avuto modo di dire in un altro numero di questa rubrica.
Ma non è di manoscritti che intendo parlare, bensì dei ritrovamenti della FASE 2. Sapete tutti a cosa mi riferisco: da qualche giorno stiamo rivedendo le nostre persone e i nostri luoghi. Dopo la interiorizzazione a cui li abbiamo sottoposti nelle settimane di clausura, avrete notato che ci sembrano più importanti e più belli, di una bellezza delicata che emoziona.
Io ho ritrovato il mercato del mercoledì nella piazza del mio paese. Che gioia! Infantile e incontenibile. Alla mia età! Ma non me ne vergogno, poiché le bancarelle e la gente mi hanno ridato energia e senso delle radici. Guardo lontano. Ci siamo abituati in queste settimane a resoconti giornalieri, ai bilanci nel numero dei contagiati trasmessi ogni ora dai mezzi di informazione.
Ho abbassato l’orizzonte anch’io, ho lavorato giorno dopo giorno, misurando le ore. Adesso è diverso: sono nella mia piazza, c’è vita intorno e mi viene voglia di spaziare.
Si espande dentro di me mio padre. Proprio dentro la piazza, che è stata il regno di mia madre ricompare lui, con la sua riservatezza a tratti selvatica e la sua ritrosia a mostrarsi. Proprio nel momento in cui gioisco del brusio e dei colori che ho intorno e penso alla tristezza di quella piazza vuota fino a una settimana fa, con la torre diroccata del castello ancora più incombente.
Otto anni fa esatti il terremoto ha privato la piazza di una parte del suo bel castello e del campanile e ora la pandemia l’ha messa a tacere. Penso “Però ora si riparte” e lui arriva. Perché ho nella mente i destini e i nostri vecchi. Lui avrebbe compiuto cento anni il 22 aprile scorso, più o meno un mese fa. Accetto che da sette anni non ci sia più, ma non posso ancora credere alla data finale che leggo ogni domenica sulla sua lapide, dove trova posto una piccola rondine scolpita nell’atto di volare.
Ora che sono accaduti eventi esiziali avrei voglia di sentire le sue parole dirette e semplici, di imparare da lui come si conciliano la commozione per ogni piccola cosa e al tempo stesso il distacco. Diceva di non sapere nulla, ma in realtà aveva capito tanto del genere umano.
Me ne ha parlato in varie occasioni ma senza impormi il suo punto di vista. Ci sto impiegando un sacco di anni a raggiungerlo in questa sua lungimiranza, peccato che i nostri tempi non si incontrino più. Abbiamo avuto tanta sintonia quando percorrevamo in bici le campagne intorno al paese, sempre rigorosamente fuori dalle strade trafficate. La faccio bastare. Ma vorrei dirgli che ora ho capito.
La lezione del dolore lui l’ha imparata da bambino, quando ha perso sua madre, la nonna Paolina, e da nessuno è più stato amato nella sua famiglia. Ha amato incondizionatamente mia madre e me quando ha formato la sua di famiglia. E non so come abbia potuto, in tanta dedizione, lasciare posto anche a noi due, al nostro temperamento così diverso dal suo. Quello di mia madre l’esatto opposto.
Uscivo con mia madre, con lei chiacchieravo fitto fitto nei lunghi pomeriggi in casa e ridevo delle sue battute istrioniche. Ma quando lui tornava dal lavoro era il centro della casa, anche col suo modo taciturno di occuparne gli spazi. Ne avevo soggezione e ne cercavo la compagnia nei miei giochi.
Quando mi ha vista cresciuta ha lasciato molto spazio al giudizio sulle cose della sua unica figlia “che ha studiato”. Le sue battute sono diventate ancora più brevi, i giudizi un colpo di lama. Peccato non averli scritti da qualche parte; ne ripeto alcuni a memoria quando si attagliano perfettamente alle occasioni della vita e la scolpiscono al meglio.
Mi piaceva. Quando anni fa una mia collega di storia dell’arte espertissima di cinema mi disse che somigliava a un attore di Hollywood, era un tipo alla Burt Lancaster, mi si è gonfiato il petto di orgoglio e di sorpresa. Lui li aveva visti tutti i film con le star hollywoodiane, molti insieme a me, ma non si era mai riconosciuto in qualcuno di loro, né l’ho mai sentito giudicare il proprio aspetto e vantarsene. Si è sempre ‘badato’ e vestito con cura, questo sì. Dalla scomparsa di mia madre in poi con il significato aggiuntivo di rassicurare me e se stesso.
Guardo lontano. Ripercorro mentalmente la lettera di Giacomo Leopardi a suo padre Monaldo. È stata scritta duecento anni fa ed è ancora in grado di ferire chi legge. È piena di disperazione e di coraggio, di desiderio verso la realizzazione di sé; il giovane Giacomo a ventun anni vuole lasciare Recanati e rendersi autonomo, non può continuare “a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria solitudine” dentro al palazzo di famiglia. Il conte Monaldo, però, non è disposto a riconoscere la grandezza dei suoi figli; Giacomo sostiene che “ne giudica più sfavorevolmente d’ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande”.
Mi vengono in mente come dei flash altre pagine bellissime della letteratura del Novecento, altri padri fissati per sempre nelle parole di poesie e romanzi. Sono i padri i cui figli ho proposto (o imposto?) ai ragazzi di quinta, che ora affrontano l’Esame di Stato al tempo del Covid 19.
Zeno Cosini, come un novello Edipo, ingigantisce il suo e lo fa incombere negli anni della propria infanzia e giovinezza, a partire dai sigari che è vietato fumare e che Zeno ruba e fuma di nascosto. Anche Pietro Rosi rimane schiacciato dalla forza vitale di suo padre Domenico, che in famiglia e nel lavoro è il padrone indiscusso e lo fa sentire incapace e inadeguato. Mattia Pascal, poi, alla morte del padre rivela tutta la sua inettitudine: egli non sa amministrare le proprietà di famiglia, non sa fare nulla. Come Zeno ha bisogno di un amministratore che agisca al posto suo.
Mi avvio fuori dalla piazza e allora spariscono tutti questi padri coi loro figli, li lascio alle pagine che li hanno immortalati. Intanto riassaporo la piccolezza, che è la cifra mia e di mio padre. Lui è stato un uomo di nessuna fama, consapevole e imperturbato per questa sua dimensione nella quale ha saputo trovare un bel po’ di libertà. Sono pronta a riconoscerglielo, ora meglio che in altri momenti della mia esistenza, ora che la clausura mi ha insegnato a fare a meno di tanti orpelli e a guardare al fondo delle cose meglio di prima. Mi sembra che i nostri tempi siano più vicini. E torno a casa.
I riferimenti ai testi letterari provengono rispettivamente da:
- Giacomo Leopardi, Lettera al padre, luglio 1819
- Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923
- Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi, 1919
- Luigi Pirandello, Il Fu Mattia Pascal, 1904
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Roberta Barbieri
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