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Da una settimana “Tutti i colori dello zucchero” è in libreria. E domani, per festeggiare idealmente l’evento e presentarlo ai lettori, in libreria (da Ibs alle 18, con Guido Barbujani e Marco Contini) ci sarà anche il suo autore, Gaetano Sateriale.

Dopo la saggistica ti sei ora cimentato anche nell’arte del romanzo, con una vicenda però che di fittizio – scrivi nella prefazione del libro – ha solo i nomi. Come ti sei trovato nei panni del narratore?
Mi sono divertito a ricordare e raccontare un’epoca ormai lontana. Scoprendo, questo è un fatto non previsto, che mi ricordavo molte più cose di quanto pensassi. Le vicende descritte sono in gran parte vere. La loro rappresentazione letteraria è comunque una deformazione soggettiva. Come sempre, direi. Però mi sono divertito, lo ammetto. E anche emozionato. Ma quello che conta è il giudizio del lettore.

L’epopea degli zuccherifici coincide con una fase – della tua vita e della nostra storia – di forte spinta al cambiamento. Perché non si è riusciti a realizzarlo?
L’epopea degli zuccherifici è molto più lunga delle vicende dell’autunno caldo e dei primi ’70. Me ne parlava mio nonno descrivendomi quelle montagne di zucchero bianco che avrei visto dal vivo molti anni dopo… Il cambiamento nelle fabbriche e nella società c’è stato davvero. Basti pensare alle riforme delle pensioni, della sanità, alla scolarizzazione di massa e al fatto che allora un figlio di operai poteva diventare professore universitario, come è capitato a diversi miei amici… Non c’è stato cambiamento della politica, se non molti anni dopo… E non sempre in meglio. Non possiamo giudicare quegli anni pensando solo alla spinta al rinnovamento. Ci sono state anche reazioni potenti al cambiamento come lo stragismo prima e poi il terrorismo degli anni di piombo.

Molti dei tuoi compagni di lotta di allora (ops, dei compagni di lotta di Enrico, il protagonista) hanno tolto le tute blu e indossato giacca e cravatta, tanti occupano oggi le stanze dei bottoni. Indice della fragilità dei loro ideali di allora e della vulnerabilità dell’individuo alle lusinghe del potere o naturale propensione dell’esser umano ad elevar se stesso? Insomma, questione politica o antropologica?
Mi pare una mitizzazione. La gran parte dei miei compagni di allora sono insegnanti. Hanno mantenuto tutti una forte sensibilità sociale e li puoi trovare in associazioni, movimenti, strutture di volontariato… qualche volta in Consiglio comunale. Ma nelle stanze dei bottoni e che stiano nei ruoli di punta dei grandi partiti politici ne conosco pochi. Anche Enrico, in fondo (tranne una breve parentesi), lavora in Cgil…

Ripensando a quei tempi, quali sentimenti prevalgono in te?
Non ho nessuna nostalgia, se era questa la domanda. Certo, tutti eravamo più giovani, più entusiasti, disposti a metterci in gioco di giorno e di notte per le nostre battaglie e le idee, ma eravamo anche più ingenui. L’atmosfera cupa degli anni di piombo successivi mi impedisce di pensare con nostalgia agli anni del movimento. Certo, a vent’anni eravamo più adulti e più autonomi di quanto non fossero o non siano i nostri coetanei successivi. Ma credo sia capitato a tutte le generazioni che hanno vissuto grandi conflitti collettivi.

Il romanzo ruota anche attorno al caso di un operaio morto sul lavoro e al clima di omertà che circonda la vicenda. E’ il prologo-metafora di altri casi e di altri complici silenzi?
Non direi omertà, rassegnazione forse… Ma anche la convinzione che professionalità voleva dire anche saper trattare un lavoro impegnativo e rischioso senza “farsi male”. Le grandi battaglie sindacali per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro cominciano proprio in quegli anni anche se le conquiste arrivano qualche anno dopo. Ma già i saccariferi avevano smesso di scambiare rischi con indennità retributive. La campagna saccarifera però era un momento particolare dove tutto era più intenso e orientato a massimizzare la produzione. Tutto il resto passava in secondo piano…

Titolo del libro è “Tutti i colori dello zucchero”, ma qual è la tonalità prevalente?
Le tonalità prevalenti in fabbrica erano il grigio scuro degli impianti, il color giallo scuro della melassa e il blu degli indumenti di lavoro. E il bianco dello zucchero raffinato. Anche il rosso dei tramonti che si vedevano dalle finestre… O il rosso antico delle grandi lotte che c’erano state.

Mettiamola così… Dolce lo zucchero, amara la città: è questa la morale?
Ferrara è una città dolcissima, perché amara? Bellissima, decadente, nostalgica, pigra e contenta di esserlo. Non credo che il Principe di Salina conoscesse Ferrara, altrimenti la sua famosa frase sui siciliani avrebbe potuto anche dirla dei ferraresi.

Allora ci correggiamo sulla morale: tutto resta sempre uguale a prima. Che a ben vedere, forse, è un altro modo per dire la stessa cosa…

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Sergio Gessi

Sergio Gessi (direttore responsabile), tentato dalla carriera in magistratura, ha optato per giornalismo e insegnamento (ora Etica della comunicazione a Unife): spara comunque giudizi, ma non sentenzia… A 7 anni già si industriava con la sua Olivetti, da allora non ha più smesso. Professionista dal ’93, ha scritto e diretto troppo: forse ha stancato, ma non è stanco! Ha fondato Ferraraitalia e Siti, quotidiano online dell’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco. Con incipiente senile nostalgia ricorda, fra gli altri, Ferrara & Ferrara, lo Spallino, Cambiare, l’Unità, il manifesto, Avvenimenti, la Nuova Venezia, la Cronaca di Verona, Portici, Econerre, Italia 7, Gambero Rosso, Luci della città e tutti i compagni di strada


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