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So che il direttore di Ferraraitalia ha scritto, giustamente, di non voler prendere parte al diluvio informativo che sta accompagnando questo difficile periodo contrassegnato dal tentativo di contrastare il diffondersi del Coronavirus.
Queste righe non vogliono entrare nel merito delle misure prese da Governo e Regioni colpite: troppo severe o sensate? Non ne sono capace.
Anche perché resta forte il dubbio che molte voci che ora puntano il dito su provvedimenti giudicati eccessivi (finiscono per aggravare una situazione economica già di suo sull’orlo della recessione), siano le stesse a gridare contro le istituzioni colpevoli, in caso contrario, di avere preso sotto gamba il problema.
Sono piuttosto i risvolti politico-istituzionali della vicenda a suscitare qualche impressione. Lombardia e Veneto, si sa, sono le regioni colpite per prime in Italia e con il maggior numero di casi. Dunque, i loro governatori si sono trovati in prima linea a dover far fronte alla diffusione dell’epidemia.
Sapendo come ragiona la politica, almeno dalle nostre parti, è difficile trattenere la sensazione che fin dall’inizio le due terre per antonomasia del buongoverno leghista, abbiano voluto dare conferma della loro esemplare amministrazione con provvedimenti pronti, chiari, decisi, efficienti e senza tentennamenti, per mettere le briglie alla diffusione del virus.
Di fronte a un governo nazionale ormai più simile a un morto che cammina, l’impressione è stata quella di prove tecniche di buongoverno, per dimostrare che… se si andasse al voto, meglio prima che poi, il Paese può essere messo in buone mani, senza altri inquilini coi quali scendere a patti.
Se, e sottolineo se, qualcuno ha fatto questi conti, ha dovuto scontrarsi con una situazione ben più complessa che ha finito per vanificare ogni ipotesi di blitzkrieg.
Non si spiegherebbero altrimenti alcune uscite singolari dei governatori Attilio Fontana (Lombardia) e Luca Zaia (Veneto).
Attilio Fontana, come scrive Marco Damilano (L’Espresso 1 marzo), prima paragona la sua regione alla città cinese di Wuhan, da cui tutto e partito, poi di fronte al pericolo paralisi della potente macchina produttiva lombarda cerca di correggere il tiro. Quando, in seguito, indossa in diretta video la mascherina anticontagio, persino Giorgia Meloni ha commentato che se la poteva risparmiare.
Il secondo, Luca Zaia, si è invece prodotto in un feroce paragone fra le normali condizioni igieniche del popolo veneto e i cinesi: Tutti abbiamo visto che i cinesi mangiano i topi vivi.
Non è stato da meno il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, quando, con un accenno che tutti hanno inteso diretto all’ospedale di Codogno, se l’è presa con alcune falle del sistema sanitario lombardo, notoriamente un modello in cima a tutte le statistiche nazionali.
La scivolata istituzionale ha prontamente provocato la reazione stizzita del governatore Fontana, che gli avrebbe dato del ciarlatano.
Come se non bastasse, mentre le borse perdono punti come la nostra Spal e lo spettro recessione è sempre più una dura realtà, Matteo Salvini, pare con la sponda dell’altro Matteo (Renzi), se ne viene fuori con la proposta di un Governo di Unità Nazionale per gestire meglio la crisi (il come non è dato sapere) e accompagnare il Paese a nuove elezioni.
Nel frattempo Giorgia Meloni, da Lilli Gruber, lamenta la totale assenza dell’Europa sull’emergenza in corso. La sovranista, nazionalista, italianissima leader di FdI chiama Bruxelles a battere un colpo? Per carità, è sacrosanto denunciare l’assenza di linee europee per evitare che si chiudano a capocchia i confini, ma proprio da quel pulpito dobbiamo sentire la predica?
Per inciso, dopo narrazioni martellanti secondo cui ondate di virus sembravano venire dai barconi dei migranti, con misure draconiane sui porti tricolori, ora sono proprio gli italiani (per giunta lombardo-veneti) ad essere rifiutati.
Chissà se il cuore immacolato di Maria, il crocefisso e la Madonna di Medjougorie, se la sono legata al dito?
Tanto per restare in area celeste: facevamo volentieri a meno anche del monito di don Livio Fanzaga di Radio Maria, secondo il quale Corona-virus ricorda la corona del rosario. Per farla breve, l’epidemia sarebbe un ammonimento divino a pregare prima che arrivi l’apocalisse.
Intanto che ciascuno è libero di immaginarselo all’inferno, condannato a trascorrere l’eternità in compagnia degli inventori delle statuette da giardino di Biancaneve e i sette nani e degli infissi in alluminio anodizzato, più acqua e molto meno vin santo nel calice della messa è il consiglio che mi sento di dare, spassionatamente.
Tornando fra i comuni mortali, sembra proprio che alla classe dirigente che ci ritroviamo manchi il senso della prudenza. Un elemento che dovrebbe essere suggerito dal fatto che un’emergenza come questa presenta più incertezze che certezze.
Non si spiega proprio la fiducia ottocentesca con la quale ci si ostina a chiedere risposte alla scienza. L’impressione è che si possono consultare tutti i virologi che si vuole, ma una risposta certa sul Coronavirus al momento non c’è. Ci sono tante risposte, ma non ‘la risposta’.
Dovrebbe essere noto che, dopo la sbornia positivista, la scienza è ricerca, processo, non ‘soluzione’. Dal principio di falsificabilità (Popper), a quello di indeterminazione (Heisemberg) e alla relatività (Einstein), il mondo scientifico nel Novecento si è ritirato dall’illusione apodittica ed è entrato nella dimensione probabilistica e delle ipotesi. Quindi, la scienza può continuare a essere utile sul piano dell’indagine razionale, ma non su quello fideistico-dogmatico della risposta univoca e definitiva.
In secondo luogo, il momento della decisione politica – chi fa cosa – cade su un assetto istituzionale nel quale le competenze, da troppo tempo, sembrano distribuite da un ubriaco.
E’ del Centrosinistra la riforma costituzionale del 2001, che ha finito per creare problemi in ordine alle competenze statali e regionali, con un’area di materie concorrenti fra i due livelli istituzionali, fonte di contenziosi e discussioni che tuttora attendono soluzioni.
E’ ancora del Centrosinistra una riforma costituzionale e istituzionale (peraltro fallita nel 2016), con la quale si è inteso semplificare il quadro istituzionale giudicato troppo complesso, composto da Comuni, Province e Regioni. Il risultato di questa furia riformatrice (della quale, naturalmente, nessuno rivendica la firma autografa), è un nuovo assetto, più semplice (?), composto da Comuni, Unioni di Comuni, Agenzie, Città Metropolitane e Regioni. Come se non bastasse, qualcuno ha pure ipotizzato le Aree Vaste, non si è mai capito se come livello istituzionale o non si sa bene cosa.
Terzo: dopo decenni di decentramento, sussidiarietà verticale e federalismo, il risultato finale è che mai come oggi le risorse, frutto dell’imposizione fiscale, sono centralizzate. Tanto che i sindaci sono come i soldati lasciati in trincea senza armi, munizioni e con le suole delle scarpe di cartone.
E il peggio è che chiunque voglia mettere ordine in questo tessuto istituzionale, pare lo faccia più per essere fotografato con la scopa in mano, piuttosto che concentrare l’attenzione sul pavimento che s’intende pulire. Così, sono più le scorie che si lasciano in giro, in un disordine crescente di compiti e di norme che, come le pezze, sono sempre peggiori del buco.
Come se non bastasse, l’emergenza Coronavirus grava su un sistema sanitario falcidiato da anni di tagli a risorse, strutture e personale. L’esempio degli ospedali Spallanzani e Sacco, nei cui laboratori sono stati isolati i virus per mano di ricercatori precari, è la cifra drammatica di un Paese ingrato, che chiede adesso a questi cervelli superstiti e maltrattati di compiere il miracolo.
Se questa, appena abbozzata, è l’istantanea di un Paese disordinato, sfibrato e bombardato, con quali velleità di protagonismo una classe dirigente può pretendere di governare un’emergenza, immaginando d’intestarsi qualsiasi vittoria?
Non sarebbe meglio, data la situazione, scendere dal pero della presunzione e cercare insieme le risposte migliori – non miracoli – nell’interesse comune?
Batta un colpo se c’è qualcuno disposto ad aiutare l’Italia a uscire dalla sindrome del colibrì: un Paese che spreca la gran parte delle proprie risorse per restare immobile.

Ferrara, 29 febbraio 2020

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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