Va beh, e allora? Parto, come ogni bravo radical chic ad ascoltare i pensosi discorsi pronunciati a “ Di martedì”. Mi sposto impaziente su “Carta bianca”, poi, furtivamente come accadeva ai bei tempi dell’impegno, mi sintonizzo sul Festival. Sembra una distrazione calcolata ma nel tempo delle scuse riesco a captare i singhiozzi di Tiziano Ferro, la scatenata esibizione di Rita Pavone in formato ancor più mignon. Avvolta in bianchi veli s’avanza una Tosca/Romina rediviva mentre il suo Cavaradossi/AlBano dall’inconfondibile lobbia di paglia bianca le gorgheggia accanto e quasi cade dalle perfide scale.
Poi, dopo esser ritornato al ‘serio’ programma e avere ascoltato un’ennesima riflessione sull’effetto del voto e sui veleni che straziano il governo, ritorno all’Ariston dove si avanza un donna elegantissima, dal viso dolente che comincia a parlare. Un discorso che potrebbe essere preso a modello per descrivere gli orrori del mondo raccontato, non con un dimesso tono, ma con la fierezza della donna che vive nel mondo dei grandi e ne capisce la storia la grandezza l’orrore:
“Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua tortura. Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa.”. Chi parla è Rula Jebreal. Il pubblico dell’Ariston allora si trasforma da palestra del nazional-popolare ad aula di un tribunale dove si giudica uno dei delitti che solo da poco sembra scuotere le coscienze (se le scuote davvero!): il femminicidio e la violenza verso le donne. Non è un caso dunque che proprio lì si consumi un rito non stupido ma legato, non so se veridicamente o meno, ad una constatazione fondamentale, quella che ci invita a riflettere che l’altra metà del cielo può e deve testimoniare ciò che siamo e che non vorremmo essere, al di là della loro venustà esibita come trofeo. Di tutto questo ha scritto una riflessione memorabile Francesco Ceccarelli su Repubblica del 6 febbraio ’20 dal titolo “Sanremo il gran successo della nostalgia”.
Il giorno dopo afferro il toro per le corna e decisamente mi sintonizzo sul Festival. Fiorello fa intelligentemente lo stupido poi, a tarda sera, il palco si fa portatore di dolore e di speranza. In una carrozzina munita di strani dispositivi giace un corpo. Una voce metallica che esce da una macchina pronuncia queste parole: “Io sono Paolo ho 22 anni e ho la Sla, l’ho scoperto 4 anni fa”. Inizia così “Io sto con Paolo”, la canzone che racconta e ripercorre la storia di Paolo Palumbo, giovane affetto da sclerosi laterale amiotrofica che sognava di fare lo chef. Salito sul palco insieme all’artista Christian Pintus, Paolo ha portato il brano che aveva presentato a Sanremo Giovani, scartato ma ripescato da Amadeus per l’esibizione di stasera. “Il mio corpo è diventato una prigione”, dice il 22enne grazie ad un sintetizzatore vocale, accompagnato dalla voce di Pintus e con l’aiuto del fratello Rosario.
La più sofisticata tecnologia al servizio di un paio d’occhi vivacissimi che rompono il silenzio e che lo impongono al Festival. Non mi sono pentito di avere rotto la consegna e di essermi lasciato trascinare nel più bieco luogo nazional-popolare.
Canticchio le canzoni dei Ricchi e Poveri e non faccio più selezioni ‘intellettuali’. C’è Sanremo? Vediamo cosa propone. Ai miei tempi, massimo segno di distinzione era la stola di visone; ora anche le ‘sciure’ sanno che è cafonaggine esibire il pelo almeno che non sia finto. Ma nella immensa platea e gradinate, quando risuonano canzoni di cui non capisco né il senso né il valore, viene ribadita la funzione di trasmettere un appello, di far risuonare il senso del disagio, di farci sentire almeno compartecipi di ciò che è ingiusto e malato nel nostro mondo. Nasce allora la condivisione della tragedia di Gessica Notaro sfregiata dall’acido che le ha gettato in faccia il suo fidanzato, e si resta colpiti del suo triste sorriso che inframezza la canzone in cui racconta con Antonio Maggio la sua vicenda.
Poi l’attesa per Roberto Benigni, compagno di tante imprese a Firenze, si stempera nella oggettiva difficoltà di proporre a quel pubblico il canto d’amore più complesso e reale della storia: il Cantico dei Cantici. Forse c’è una presunzione al fondo della sua proposta. Credere che quel pubblico possa compartecipare quell’evento in quel luogo; un’impresa francamente improponibile. Ma se l’attore riempie le piazze leggendo Dante o commentando i Dieci Comandamenti, come mai questo pubblico è così assente e annoiato? Forse per un eccesso di spiegazione? Forse perché mischiare il più antico canto d’amore con le spiegazioni simboliche di un connubio sessuale esercitato dentro un contesto religioso può apparire troppo audace? Ecco allora l’affannosa e troppo lunga spiegazione iniziale, lo smorzarsi del lato comico, il tendere al serio pur in un contesto lontanissimo da quei problemi. L’ossessiva ambizione di Benigni di venire a capo di testi difficili, pur preservando leggerezza e vivacità, questa volta non ha retto con l’impatto di un luogo il più lontano possibile da quella impresa. Ma eroicamente ha provato!
Ora ho finito di sbirciare ciò che accade al Festival. Posso recarmi al cinema, leggere libri noiosi, scrivere saggi senza sentirmi escluso dalla …società!
Il mio ‘dovere’ l’ho fatto. E… vinca il migliore.
Sostieni periscopio!
Gianni Venturi
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it