LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Non tutte le notizie fanno notizia
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La notizia è che i nostri quindicenni non sanno leggere, se non fosse che a non saper leggere sono i giornalisti che l’hanno lanciata e quegli onorevoli che siedono alle Camere per i quali i dati Pisa proverrebbero dall’università omonima anziché dal Programme for International Student Assessment promosso dall’Ocse.
Il fatto è che la notizia non fa notizia e che niente di nuovo si muove sotto il sole mediterraneo del bel paese o tra le acque che limacciose esondano da Venezia a Messina.
Gli ultimi dati a confermare quello che già sapevamo, li ha prodotti l’Invalsi di casa nostra, con le prove somministrate per la prima volta, dal 4 al 30 marzo di quest’anno, anche agli studenti di quinta superiore.
Se ne è discusso per l’estate, neppure tanto tempo fa, e la situazione, o meglio la notizia vera, è sempre la stessa: il nostro sistema scolastico non è in grado di colmare gli svantaggi a partire dal divario tra nord e sud, tra chi è benestante e chi non lo è, tra chi frequenta un liceo e chi un istituto tecnico o professionale oltre alle differenze dovute all’appartenenza di genere.
Il sistema dell’istruzione così com’è presenta diverse falle, avremmo bisogno di luminari al capezzale del malato, ma le casse dello stato non ci consentono neppure questa spesa. Debole il paese, debole l’istruzione, difficilmente si può andare da qualche parte.
I nodi da sciogliere sul piano culturale sono tanti, dalla considerazione che questo paese ha delle generazioni che crescono all’attaccamento ad una visione tradizionale dello studio, che ancora identifica nell’istruzione classica il modello massimo di formazione come nel secolo passato e come se il mondo fosse sempre lo stesso.
Terreni che da noi sono di aperto scontro, ma sarà necessario che prima o poi le teste d’uovo nazionali decidano di scontrarsi e di fare questa battaglia una volta per tutte, non si può continuare a trascinarsi nella pigrizia, se mai continuando a cullarsi nelle geremiadi del temporis acti o nella laudatio scamni.
Anche il rapporto scuola e lavoro costituisce una questione strategica per il nostro sistema formativo che non può essere condizionata da ideologie protestatarie o dall’insipienza di qualche imprenditore.
Intanto bisognerebbe preoccuparsi che frequentare un istituto tecnico o professionale non fosse un declassamento, ma l’opportunità di qualificarsi per una specifica identità culturale e formativa.
Invece avviene che la scelta di iscriversi ad un istituto tecnico o professionale è suggerita dai professori a quegli studenti che hanno accumulato insuccessi scolastici. Questa è ancora la mentalità radicata nella nostra scuola e nel paese, per cui tecnici e professionali, impegnando più la pratica che l’astrazione, sono adatti a chi non si rivelerebbe particolarmente portato per gli studi.
Anche questa questione primo o poi si dovrà avere pure il coraggio di affrontarla. Nel frattempo assistiamo impotenti al fallimento del decollo nel nostro paese dell’istruzione tecnica superiore, che potrebbe costituire un nodo strategico per la nostra ripresa economica.
Cito questi temi convinto come sono che sia difficile mettere mano utilmente al nostro sistema formativo se non si liberano le menti da vecchie incrostazioni che durano nel tempo e che condizionano i pensieri del paese sull’istruzione.
Una di queste incrostazioni è la tendenza a identificare l’apprendimento con la scuola, che ci sia un’età del gioco e una dello studio con la sua fatica, come se il gioco dell’infanzia non fosse a sua volta studio e fatica, non a caso abbiamo aperto le “scuole dell’infanzia”, archiviando gli “asili”.
Ho insegnato a leggere a mio figlio che aveva tre anni, con il metodo Doman. Da allora e ancora più oggi sono convinto che non si debbano attendere i sei anni per apprendere a leggere e a scrivere, che i tempi e le occasioni della nostra epoca non sono più quelle di ieri.
Si nasce che si è immersi in un mondo di icone, e tra queste icone tante sono le parole che spuntano da tutte le parti, sui manifesti, sui muri, sugli oggetti, sui libri che passano tra le mani di bambine e bambine, perché rinviare la possibilità di decodificare quelle icone a cui gli adulti danno voce e significato?
L’abitudine come la famigliarità con il libro vanno appresi da subito, più si va avanti, più si rimanda e più sarà difficile famigliarizzare con la curiosità e col leggere non come fatica ma come piacere, come atto spontaneo e naturale.
Certo non si può insegnare a leggere a tre anni come a sei, bisogna saperci fare, darsi da fare per prepararsi e per cambiare.
Si entra nei terreni dell’educazione permanente e dell’educazione incidente, altre questioni che la cultura della scuola ha necessità di affrontare prima di parlare di scuola e dei suoi cambiamenti.
Forse le ricette per invertire gli esiti delle prestazioni in lettura e in scienze dei nostri quindicenni alle prove dell’Ocse Pisa stanno più qui che nell’insistere ad essere come siamo, considerato che dal 2009 al 2018 le nostre performance sono andate peggiorando.
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Giovanni Fioravanti
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