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Da: Organizzatori

L’autore: «La poesia è una cosa seria e pretende onestà intellettuale».

Solo un’immagine, dipinta o pronunciata che sia, può fermare il tempo. E per far fronte alla realtà, ma di più, per riuscire a trasformarla tramite le parole bisogna essere “fortissimi”. D’altronde, scegliere di rivelarsi significa decidere chi essere in quel preciso istante. Sfruttando una contraddizione Matteo Bianchi scrive Fortissimo, appunto, la sua nuova raccolta in versi, edita da Minerva. Venerdì 8 novembre, alle 18, l’autore lo presenterà alla Feltrinelli di Ferrara con il giornalista Marco Zavagli. E a leggerne alcuni testi sarà l’attrice Miriam Previati. Dopo che Harold Bloom – l’illustre critico americano scomparso di recente – nel definirlo fu indeciso tra «a flea and a gnat» («tra una pulce e un moscerino») poiché prese parte alla diatriba sui quotidiani contro Harry Potter, difendendone le finalità letterarie, Bianchi non si è scoraggiato, anzi, ha rilanciato in poesia: «C’era quello in sala che, pur vincendo il nero da non si sa quanto, scommetteva sempre e comunque sul rosso».

Fortissimo si compone di due sezioni: la prima, Diario di un amore, è una sorta di monologo interiore che aspira a dialogare con i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, in cui lo scorrere del tempo si rivela un pretesto avulso dalle necessità dell’io lirico e di conseguenza della lingua stessa. Una lingua fatale nel delimitare soggetti e oggetti del dettato, ma stesa dall’autore con una strategia musicale che rinnega la tradizione di provenienza. La seconda, Mezzo piano, si apprezza per il contrasto con la precedente: le immagini rimarcate dalla partitura metrica abbandonano il dolore dell’innamorato, che si ripiega su di sé, per immedesimarsi nei vissuti altrui. E ricostruirli: «E raccoglievo le sue cose, / ciò che più non sarebbe stato, / ordinato, nei miei bagagli… / gli ultimi ritagli di vita».

La ricerca dell’autore, a volte lieve a volte insostenibile, va ben oltre la storia d’amore. Traspare un problema di relazione quotidiana, ma anche tra il presente del lettore e l’idea di passato che resiste tra le pagine. A quale patrimonio appartengono davvero i fantasmi mitologici che Bianchi condensa, dalla passione di Prometeo alla bassezza di Orfeo? In quale patrimonio di affettività – come valore – possiamo, se possiamo, riconoscerci? «Comunque sia, Euridice, non svanirò in un gesto, tanto meno in un canto. / Mai. Io resto e resterò persino muto, se sarà necessario». Questo è un libro “aperto”, sia perché non chiude mai la forma, sia perché non narra e non descrive, ma alla fine chiede conto.

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