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Matteo Provasi, docente universitario

La parola “partigiano” è stata progressivamente svuotata di significato, e di fatto depotenziata dall’interno. Spesso brandita come arma pseudo ideologica, manipolata per il piccolo cabotaggio politico, mistificata dai nati molto dopo (forse, senza aver mai nemmeno letto Calvino). Ne è rimasta la mitografia, ma si è perso il senso profondo: resistere a un’idea di società che non condividiamo.
Il pericolo oggi è proprio l’assenza di una idea di società: si ragiona per schemi, si divide il mondo in buoni e cattivi. Plaudiamo alle forze progressive che accolgono i migranti, e non ci accorgiamo che in troppi muoiono in mare. Fingiamo di occuparci del benessere degli individui, ma poi li spersonalizziamo incasellandoli in categorie. Ci piace dipingerci in primo piano sulle barricate, tagliando però dall’immagine lo sfondo di compromessi che ci circonda. Troppo spesso ci manca un requisito essenziale, l’onestà intellettuale.
Io conosco partigiani odierni. La mia amica Manu: una lunga trafila nella ricerca, poi l’imbuto che si stringe, e la voglia di portare tutto il suo sapere nelle scuole medie, senza spocchia, resistendo ogni giorno a paletti didattici, vuote visioni pedagogiche, genitori egocentrici, colleghi ottocenteschi, pretese sindacali; cercando di offrire agli adulti di domani strumenti più affilati per comprendere la realtà. O il mio amico Dino: un lavoro emotivamente impegnato nell’associazionismo, ma che non lo inghiotte, perché vuole tempo da dedicare ai quattro figli e ai suoi interessi, resistendo ogni giorno alla tentazione di mercificare anche la solidarietà, di diventare un ‘professionista del bene’.

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Redazione di Periscopio



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