di Alessandro Oliva
Strana quest’estate del 2014: fredda, eppure anche insopportabilmente calda. Per rendersene conto bastava accendere un televisore e aspettare l’arrivo di un telegiornale e il suo carico di opprimenti notizie: si parlava, di volta in volta, dei missili di Hamas e dei raid aerei di Israele; si mandavano spezzoni di attacchi continui, di popolazioni confinanti che si uccidono a vicenda, di fanatismi conditi da pretese di razionalità nel togliere la vita a delle persone; si vociferava di un Paese dell’Est non troppo lontano, dove è in corso una guerra fratricida e dove si combatte città per città, strada per strada.
E non è ancora finita, i conflitti proseguono. Sono sgomento e incredulo, perché le guerre scoppiano, vanno avanti e quando finiscono non sai nemmeno perché sono cominciate. Semplicemente esplodono e, se sei abbastanza fortunato, puoi assistere al loro cruento sviluppo attraverso uno schermo che ti regala la sensazione della vicinanza e il conforto della lontananza. Altrimenti, basta aprire la porta di casa, prima che la guerra stessa bussi.
Ad ogni modo essere distanti equivale spesso a sentirsi distaccati, eppure esiste sempre qualcosa, come un particolare caso di violenza bellica, una strage o la morte degli innocenti, in grado di riportarci al conflitto e a instillare il noi il desiderio, la preghiera che questo meccanismo infernale si fermi. Nel mio caso è stata una canzone. Si chiama “Civil War”, degli assai controversi Guns N’ Roses. Non lo ascoltavo da tempo, questo brano, realizzato da una band selvaggia, accusata di misoginia, omofobia e razzismo e che, con la sua furia, è stata capace di conquistare in un attimo il mondo intero. Chiunque si trovasse ad ascoltarla per la prima volta potrebbe partire prevenuto, nonostante il titolo: “tanto è il solito sesso, droga e rock n’ roll”. E’ uno stereotipo a volte azzeccato, ma che in questo caso non potrebbe risultare più sbagliato.
Si parte con un lamento agonizzante, poi una voce sommessa e tremolante fluttua su un arpeggio triste e malinconico, preceduto da un fischio che preannuncia solitudine, desolazione e abbandono.
“Look at your young men fighting
Look at your women crying
Look at your young men dying
The way they’ve always done before
Look at the hate we’re breeding
Look at the fear we’re feeding
Look at the lives we’re leading
The way we’ve always done before”
[Guns N’ Roses, Civil War, Use Your Illusion II, 1991, Geffen Records]
In un crescendo continuo l’atmosfera si carica di tensione fino ad esplodere in un furioso incedere: il canto sconsolato diventa un ruggito rabbioso, aspro e roco, le chitarre si affilano in un’eco distorto, i tamburi vengono picchiati con meccanica brutalità, e si arriva a quello che forse è il passaggio più intenso e coinvolgente dell’intero brano:
“My hands are tied!
The billions shift from side to side
And the wars go on with brainwashed pride
For the love of God and our human rights
And all these things are swept aside
By bloody hands time can’t deny
And are washed away by your genocide
And history hides the lies of our civil wars”
E’ una cruda realtà, quella che additano con note incendiarie i Guns N’ Roses, affrontandola di petto, schernendola e rinfacciandola anche nello stupendo verso un finale di commiato: “Ma poi cosa c’è di civile in una guerra?”. E’ la realtà delle guerre che hanno pretese di umanità, delle guerre che si nascondono dietro le religioni e i diritti umani, un meccanismo perverso che continua a ripetersi da tempo immemore. Data la situazione, sembra che una canzone non basti, che non possa esercitare alcun effetto. Forse però l’aspetto maggiormente positivo di questo pezzo e di tutte le canzoni non è l’intrinseca bellezza, ma il fatto che si inserisce in una scia, la segue e la crea.
In altri termini “Civil War” può condurci verso altre porte, verso altre canzoni che parlano della stessa cosa, di guerra, e di informarci, coinvolgerci, sensibilizzarci, assumendo ruoli che apparentemente sembrano estranei alla musica, ma che essa riesce ad assumere con forza travolgente. Personalmente, ne sono felice. Sì, perché anche se “sappiamo tutti dove soffia il vento oggi”, “quante volte un uomo può voltare la testa, fingendo di non vedere”? Ed è molto facile nel momento in cui “Odio e guerra sono le sole cose che abbiamo oggi” e “anche se chiudo i miei occhi non se ne andranno via, così che devo farci il callo, perché è così che vanno le cose”; “e non so più pregare, e nell’amore non so più sperare”. A volte realizzo che basta una canzone per dirci che “quando la violenza causa silenzio, dobbiamo aver sbagliato qualcosa”, e che dovremmo levare più spesso un inno al cielo: “date una possibilità alla pace”.
[Le citazioni in corsivo dell’ultimo capoverso fanno riferimento a testi dei seguenti brani: Bob Dylan, Blowin’ in the Wind, The Clash, Hate And War, U2, Brian Eno, Luciano Pavarotti, Miss Sarajevo, The Cranberries, Zombie, John Lennon – Plastic Ono Band, Give Peace a Chance]
Il brano intonato: Guns n’ Roses, Civil War [clic per ascoltare]
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Redazione di Periscopio
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