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E alla fine del libro bassaniano (leggi QUI l’articolo su Ferraraitalia) il ritorno a casa, a Parigi.
Mi accoglie un tempo astioso, un misto di vento implacabile, di pioggia alternata a un cielo azzurrissimo, di freddo gelido con pochi momenti di tepore. L’aeroporto di Beauvais è quasi irraggiungibile. La cittadina che avevo amato con la sua bella cattedrale non si vede, ma tutto si muove velocemente, al limite del disumano tra ordini impartiti con toni secchi, estenuanti attese in piedi, imbarchi a spinta come se i passeggeri fossero merce da stivare. Per i ‘diversamente giovani’ (leggi vecchi come chi scrive) le linee aeree economiche sono da evitare come la peste, specie quella che usa questo aeroporto. Una schiera di liceali di Macerata sfoggia una maglietta rossa. Sono allievi e allieve del Liceo Leopardi gentili, educati, entusiasti. Una deliziosa ragazza nel sedile accanto trattiene il fiato nel pronunciare la parola magica: Parigi. Dò la stura ai ricordi e le indico i luoghi della mia formazione sentimentale e artistica, suggerendole di andare a visitare la casa-museo di Edith Piaf. Mi guarda sconcertata, chiede aiuto alle compagne che scuotono la testa desolate perché tutte non sanno chi sia questa cantante. Nemmeno ‘La vie en rose’ dice loro niente. Provo con Maria Callas e ottengo un lieve ‘remember’. Con sicurezza, la protesi del telefonino incollata alle dita, scattano immagini su immagini. Nessuno guarda ciò che appare se non come visione mediata.

Decido – anche se avevo promesso a me stesso di non lasciarmi incantare dalle sirene dei musei – almeno di andare a dire ‘ciao’ ai miei amici. Comincio con la Fondation Vuitton al Bois de Boulogne e allora non importa più il vento, le code interminabili, i controlli che smagnetizzano perfino la chiave dell’hotel e mi trovo in questo vascello di vetro e acciaio a guardare con occhi rapiti la Courtauld Collection tante volte vista a Londra, ma qui trionfalmente risplendente, che sfoggia senza pudore i suoi capolavori: quasi provocatoriamente. Già sono in fase di follia amorosa. Il taxi mi porta al Museo Marmottan tempio del Neoclassico. C’è una mostra, ‘L’Orient des peintres’, e tra Ingres, Gêrome, David, Manet e compagnia raggiungo la pazzia mentale. Un altro taxi dovrebbe condurmi all’inizio di Faubourg Saint-Honoré, ma m’imbatto in un autista ladro che comincia a girare trasportandomi da tutt’altra parte. Alle mie proteste risponde con viso innocente. E’ ormai consuetudine, mi si spiega; basterebbe che telefonassi alla polizia e perderebbe il posto. Ma quanto tempo mi sottrarrebbe alle mie visite? Rinuncio quindi a 20 euro e sempre più in stato di esaltazione percorro la strada del lusso almeno per comprarmi un etto di tè e i suoi inimitabili frutti canditi da Verlet. Sguardo implorante a chi condivide questi giorni con me e concludiamo con il Louvre. Tra folle scalpitanti con sottofondo delle lingue più strane, su cui predomina l’italiano. Mi dirigo a porgere un doveroso saluto alla Gioconda, un quadro che non amo, ma ai compleanni è buona norma portare gli auguri. Il pavimento della rinnovata sala tutta in legno è cosparsa di corpi umani che compulsivamente cercano di guardare non il quadro ovviamente, ma l’orrido aggeggio attaccato alle falangi. Un classico odore di corpi e piedi non lavati condisce il salone dell’idolo. Lentamente monta la rabbia. E nella grande galleria m’imbatto nei ‘Baccanali’ Tiziano, una volta a Ferrara, che mi conducono fino alla ‘Morte della Vergine’ di Caravaggio. Qui stanchi barbutelli o ragazzotte in abito da sera con unghioni variopinti s’accarezzano le untuose chiome o si fanno treccioline. Dall’Alpi alle Isole i dialetti italioti si sprecano. Formulo tra me e me una proposta: perché non impedire l’ingresso ai musei d’arte ai giovani tra i 15 e i 25 anni? Sarebbe un risparmio di energie e di consumo del luogo. Chi volesse potrebbe farlo da solo perché motivato. E ce ne sarebbero. Di solito, mi spiegano, la gita di fine anno alle superiori dovrebbe sancire l’ingresso nella società europea. E allora lasciate che scelgano loro le mète. E se mèta è inevitabilmente Parigi, allora che vadano a fotografare l’entrata del ‘Lido’ o del ‘Moulin rouge’, che ancora nell’immaginario rappresentano il peccato e non noiosissimi luoghi di falsa impudicizia. Altra cosa invece i bambini. A due per due guardano rapiti ogni cosa orgogliosamente condotti dai loro maestri. In silenzio per capire l’origine della bellezza.

Eppure il mio rigorismo crolla quando un gruppo s’avvicina al Caravaggio e una ragazza spiega impeccabilmente il senso del quadro e la sua storia. Tacciono, le fanno domande e capiscono l’enormità dello scandalo di quel folle pittore che osa dare alla Vergine forme e modi di una vecchia prostituta. Lo stesso rispetto che ho visto in quel gruppo come nei milioni di giovani che manifestavano per la salvezza del clima, nel loro sentirsi Greta, nel darci una lezione di eticità. Al di là e sopra ogni retorica o ogni atteggiamento da radical chic.
E m’avvicino all’amico tra gli amici. Canova. Scendo al piano terra e mi dirigo sicuro a salutare ‘Amore e Psiche’. Resto basito. Non ci si può avvicinare per la folla. Ha raggiunto il livello di fama della Gioconda o del Caravaggio. Giovani e meno giovani in estasi pensano come sarebbe bello esser baciati da ‘cotanto amante’. Riesco non senza difficoltà a procurarmi un posto alle spalle del gruppo e contemplo le chiappe canoviane di Amore fino a sentire una piccola punta d’orgoglio. Trent’anni a lavorare su quell’autore!

Ho preziosi indirizzi per poter mangiare in luoghi unici. Alle Halles di Saint-Germain una trattoriuccia dal nome di un profumato fiore ci accoglie con calore e via allora con champagne e coquilles Saint Jacques a prezzi da pizza! Riprovo anche per una doverosa Margarita al Deux Magots. Il puro orrore di turisti asiatici e russi. La Margarita mi costa come il pranzo in trattoria. Fine di un mito.
E sotto un cielo rabbiosamente incattivito rinuncio ai libri da Gibert in Boulevard Saint Michel.

Ripartiamo per l’Italia, ma sorpresa delle sorprese nel Duty Free dello scalcagnato aeroporto troviamo un celeberrimo profumo ormai sparito da qualche anno dal mercato che ci riporta con quell’odore indimenticabile alla città magica.
Au revoir mon Paris.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it