Il suo nome è Serena, ma è tale solo di nome perché di fatto è inquieta. Non è solo l’inquietudine di una ventenne impaziente di ritagliarsi uno spazio nel mondo perseguendo fantastici sogni irrealizzabili o obiettivi più probabili, è uno stato di perenne agitazione e smania che le impone di vivere veloce, troppo veloce, bruciando tappe, aggirando ostacoli, studiando scappatoie, ansimando per la fatica ma andando sempre avanti in modo forsennato.
“Sirena”, perché è così che la chiamano tutti quelli del suo giro, vive a 1000, come dice lei stessa, il che significa spingersi al massimo, anche sfidando il proprio limite fisico e psichico. Una di quelle creature che non ne hanno mai abbastanza e addentano la vita fino all’indigestione per poi ricominciare di nuovo, dolorante ma mai sazia. L’appellativo ‘sirena’ è meritato perché è bella davvero, anche sotto quegli strati di trucco pesantissimo e camuffamenti a cui non intende rinunciare. A volte sembra la caricatura di se stessa, una strana figura che ricorda l’eroina dei manga Minami Asakura: capigliatura scarmigliata a volte nera come la pece ed altre rossa come il fuoco, un lungo ciuffo abbassato sull’occhio sinistro, occhi e sopracciglia abilmente disegnati, quasi un tatuaggio, una bocca rossa contornata da un cenno di matita più scuro. Tutto è esagerato, evidenziato e sottolineato calcando la mano: forse è bisogno di affermare quel ‘io esisto’, ci sono, sono qua. In famiglia non parla perché non è abituata a farlo, presi tutti come sono a vivere le loro storie e non confrontarsi. Nessuno racconta niente e quando torna a casa uno, se ne va l’altro nella totale indifferenza. E’ un’aggregazione sballata di persone che più diverse di così non si può: una madre sempre assente, dio solo sa cosa faccia, un padre dentro e fuori dal carcere, due fratelli maschi abbondantemente avviati sulla strada della microcriminalità perché è così che si vive in quel posto. E le altre famiglie, se così si possono definire, sono esattamente uguali. Serena è cresciuta da sola, barcamenandosi tra gli aspetti di una realtà che se non ti ammazza ti rende forte. Ha vissuto i suoi vent’anni come un camaleonte che muta continuamente colore per mimetizzarsi e difendersi, confondere e spaventare.
Una cosa, una sola cosa ha sempre avuto in testa: sopravvivere al degrado e riscattarsi da quel panorama di miseria. Sembra quasi che quest’idea sia nata con lei, incollata addosso sulla sua pelle fin dal primo istante di vita, tant’è la voglia di andarsene da tutto quello. Lo dichiara ma soprattutto lo dimostra con i continui tentativi di uscire dalla spirale in cui finiscono prima o poi tutti, in quelle zone depresse di periferia urbana. E’ convinta che occorrano soldi, tanti soldi per andarsene definitivamente e che questa sia l’unica condizione che fa la differenza tra il vivere e morire tra gli scarafaggi rispetto ad una vita più degna. I soldi.
Serena parla un italiano contorto, mischiato a parole dialettali e gergali, dove la sintassi viene affossata e la coesione del discorso viene messa a serio repentaglio ogni volta che lei decide di affrontare argomentazioni lunghe ed impegnative, ma riesce ad esprimersi perfettamente con la mimica, l’enfasi e quella gestualità teatrale che la rende simpatica, comunicativa, immediata e colorita. La sua scuola è stata la strada e i suoi insegnanti sono stati gli ambulanti che strillano al mercato, le donne dei palazzoni del quartiere, i coetanei che frequenta e che come lei se ne fregano delle istituzioni.
L’appartamento che hanno occupato abusivamente è formato da tre locali e loro hanno portato qualche mobile recuperato, vecchie stoviglie annerite e una lavatrice abbastanza recente. La televisione è grande, schermo piatto a cristalli liquidi, alta definizione. Bella. Viene da chiedersi da dove provenga. Ovunque cose d’ogni tipo: indumenti buttati a caso, pacchetti di pasta, biscotti, patatine, scatolette, detersivo, pomodori e qualche cespo di insalata. Anche alcune boccette di profumo. Un po’ di tutto alla rinfusa, nessuna appartenenza da preservare e custodire in uno spazio proprio.
Quella casa dà subito la sensazione del caos e se il luogo che abitiamo offre l’immediata percezione di chi siamo, allora si capisce subito come i rapporti, in quel posto, siano completamente assenti.
Serena è stata una bambina libera, senza regole e costrizioni, che usciva da quel buco ogni volta che voleva e rimaneva sulla strada ore ed ore a giocare e bighellonare con altri bambini come lei.
In quei posti, polizia e assistenti sociali contano come il due di coppe a briscola e nessuno li vuole tra i piedi a curiosare ed indagare, a imporre comportamenti e decidere delle loro vite. E’ una piccola jungla dove regnano delle leggi tacite che regolano i rapporti e le relazioni – rispettale e sarai rispettato -, dove anche i balordi, quelli che agiscono fuori da quel controllo sociale discutibile finiscono per essere messi nella condizione di non agire più. Chi comanda decide e controlla le attività e le azioni di tutti. Nulla sfugge.
Era poco più che una ragazzina quando spacciò per la prima volta. Le avevano chiesto di fare certe consegne e lei aveva eseguito con attenzione quanto richiesto, felice di essere tenuta in considerazione. Si sentiva davvero importante, quasi necessaria, poco importava se era droga destinata ai ‘fradici’, come venivano chiamati in gergo i tossici. E già allora si tratteneva una piccola parte di soldi e la nascondeva ogni volta in un posto diverso. Contava quotidianamente quel piccolo gruzzolo con una dedizione totale, quasi accarezzando i biglietti e le monete come fossero vivi e le rispondessero. La carriera di corriere era durata per qualche tempo, poi non l’avevano più cercata perché occorre cambiare spesso per mantenere il giro al sicuro, lontano dalle abitudini e dai volti noti e poi, di quelli come lei se ne trovavano a bizzeffe.
Si era subito inventata lavoretti saltuari ai magazzini dell’ortofrutta, alle 4 di mattina quando i camion carichi di merce arrivavano e partivano alla volta dei mercati, oppure in pizzeria a lavare pile di piatti o ancora al canile, con quelle povere bestie affamate e malridotte da accudire. Erano brevi periodi di tempo in cui lei era felice perché poteva incrementare quel piccolo patrimonio che non aveva mai smesso di nascondere nei posti più strani. Aveva sempre evitato altre attività, quelle fin troppo facili da affrontare ma così lerce, diceva lei, che non avrebbero certo contribuito al proposito di andarsene, di scappare da quella vita. Le proposte fioccavano, c’era chi insisteva, l’avevano perfino minacciata ma lei si teneva lontana da certi ambienti e certe ‘lavori’ con un rigore che ne aveva dell’incredibile.
Poi tutto era accaduto con una rapidità inattesa e lei si era trovata a 18 anni, catapultata in un’altra dimensione.
Era successo quasi per caso una sera, quando in discoteca qualcuno l’aveva notata. Ballava libera, quasi fosse da sola in mezzo alla pista, senza curarsi di chi le stava intorno. Si muoveva perfettamente come fosse nel suo elemento naturale e chi le stava vicino si fermava a guardarla, le faceva posto e la ammirava. Le proposero quasi da subito di ballare nel locale ogni fine settimana e il compenso era più di quanto avesse guadagnato fino ad allora. Doveva solo lasciarsi andare con quei movimenti a volte concitati e scattanti, altre sinuosi e morbidi, avvinghiata ad un palo, libera nel suo piccolo spazio, a volte in una strana gabbia di metallo dorato, altre dietro ad un grande paravento che separava il pubblico dalla sua ombra.
Sono già tre anni che Serena vive di notte per dormire di giorno e gira i locali che sono diventati ormai parecchi. Ci sono quelli alla moda, con effetti speciali, Dj che contano, frequentazioni di bella gente, magari strafatta ma bella e poi ci sono quelli più scadenti, dove ti chiedono sempre qualcos’altro perché non hanno capito che sei lì solo per ballare, basso profilo, bassa caratura. La coreografia cambia spesso ma il pubblico è sempre dappertutto rumoroso, eccessivo, debordante, ‘fuori di testa’, come suole definirlo. E tutti si muovono a tempo con lei e quel rimbombo che si chiama erroneamente ‘musica’ li accompagna per ore, fino a mattina, bagnati fradici dall’alcol e stravolti da tutto ciò che gira e intontisce fino allo svenimento. Lei si trucca come sempre, calcando la mano, indossa ormai senza imbarazzo abitini minimi che la coprono appena e scarpe vertiginose che la elevano di almeno 15 centimetri e a fine serata incassa. Prende un taxi o rimedia qualche passaggio e torna in quell’appartamento che lei chiama ‘loculo’. Aggiunge il compenso del giorno al resto, conta sempre con la stessa soddisfazione quel gruzzolo diventato consistente e va avanti.
Non ha cambiato idea sull’importanza dei soldi nei suoi progetti di fuga ma sembra arenata, incollata a quella vita, incapace di dare lo scossone finale, quello che le consentirebbe di uscire definitivamente da quel circolo vizioso stagnante. L’atto di coraggio, la sola cosa che manca per attuare ciò per cui ha vissuto fino ad ora, proprio a lei, che di coraggio ne ha dimostrato da vendere.
La ‘sirena’ balla, balla e conta i soldi che custodisce gelosamente.
Quando qualcuno le ha chiesto se non si vergognasse a lavorare in quei posti, esibendosi seminuda davanti ad una folla scalmanata e delirante, lei ha risposto candidamente:
“Ma è solo un cubo”! ed ha sorriso, pensando a ciò che avrebbe aggiunto al suo ‘tesoro’ serata dopo serata.
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Liliana Cerqueni
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