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Da Ufficio Stampa Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna

L’8 marzo è un’occasione per puntare i riflettori sul tema della condizione della donna, in Italia e nel mondo. Una condizione spesso scomoda e attaccata. Dalle violenze che subisce, dalle ingiustizie nella retribuzione, dalle ineguali opportunità che le vengono offerte, quelle che più spesso le vengono negate. Per le psicologhe e gli psicologi – di cui l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna è portavoce – il tema è di scottante attualità. È l’intero apparato sociale e culturale a costringere la popolazione femminile nello stereotipo di madre e angelo del focolare domestico o in quello – solo apparentemente opposto – di una donna “con gli attributi”, seguendo un modello di machismo tipico dello stereotipo maschile. Il primo è il più classico degli stereotipi che la donna si trova stampato addosso. Il secondo è quello che spesso viene affibbiato alla donna che, emancipandosi, vuole affermarsi o dimostrare libertà, coraggio e intraprendenza.
Ma sono vari e violenti gli stereotipi: non si riducono a questi e spesso vengono inculcati nei giovani sin dalla più tenera età, quando i modelli che vengono proposti ai bimbi e alle bimbe sono rigidamente preordinati. Basti pensare allo stupore che ancora causa nella maggior parte delle persone l’idea di un maschietto che gioca con una bambola o di una ragazzina che voglia darsi al rugby. Queste resistenze preconcette su cosa una donna possa fare o non fare contribuiscono a formare stereotipi di genere anche più gravi, e questo è uno dei motivi per cui una corretta educazione è così importante.
Ecco che l’8 marzo, come nel resto dell’anno, valorizzare il femminile significa rifiutare le abitudini che bloccano le donne in una condizione di inferiorità. Si può iniziare combattendo quei giudizi e quei pregiudizi, spesso inconsci, che sono introiettati nelle persone che meno credono di essere misogine. La battuta sessista, il linguaggio violento rivolto contro le donne, l’accondiscendenza, sono esibiti, talvolta, da persone che mai si direbbero misogine. Tra queste anche molte donne, che riconoscono all’atteggiamento patriarcale un ingiustificato potere, motivato, evidentemente, da una sorta di misoginia interiorizzata.
Nel corso dell’ultimo anno, ad esempio, si è fatto un gran parlare dei ricatti sessuali e delle violenze subite dalle donne nel mondo dello spettacolo e non solo. Questo atto di potere dell’uomo contro la donna ha richiamato l’attenzione su una forma di sopraffazione: il ricatto sessuale sul lavoro è una forma di violenza devastante per la donna, ma purtroppo assai diffusa e, ultimamente, accentuata a causa della crisi economica. L’uomo sfrutta la sua posizione di vantaggio per ottenere prestazioni sessuali da donne in difficoltà o che vogliono progredire nella carriera. Il caso Weinstein è stato criticato e sciaguratamente normalizzato da molte persone, anche da donne, che non hanno sostenuto le vittime.
La battaglia più dura da affrontare e vincere riguarda la psicologia delle donne stesse che devono riconoscere e superare gli stereotipi e i pregiudizi propri della cultura paternalistica. Il senso di colpa che la donna prova quando è vittima di molestie è dovuto all’assimilazione psichica degli stereotipi sul proprio genere, compreso quello che la valuta, sul piano lavorativo, in base alla sessualità. Infatti, questo valore discriminante, che la riduce a oggetto sessuale, può venire fatto proprio non solo dagli uomini ma anche dalle stesse donne che lo applicano nei giudizi verso se stesse, le colleghe o le altre donne. Sembrerebbe quindi che ci si trovi davanti a una moltitudine di uomini e donne che odiano le donne, odio che per essere rimosso richiede un’ottima dose di volontà e coraggio, qualità necessarie soprattutto alle donne per emanciparsi da errati preconcetti che non permettono loro di essere libere nel pensiero e solidali con le vittime.

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