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(Pubblicato il 18 giugno 2014)

Chiediamoci: perché, nella quotidianità, è così difficile dialogare? Perché è complicato capirsi e trasformarsi a vicenda, in particolare tra persone che la pensano diversamente, ossia esprimono posizioni precostituite o ben strutturate? Perché riusciamo in genere a scambiarci solo gli spiccioli delle nostre idee e convinzioni? Una conferma di questa situazione si ricava dai dibattiti televisivi di ogni tipo che, in genere, non sembrano modificare i protagonisti o chi ascolta. Talvolta, anzi, oltre a confermare le reciproche tifoserie, producono un senso di fastidio e di sazietà che vanno a fecondare le radici del qualunquismo. Tema altamente complesso perché implica un intricato numero di fattori: storia, cultura, famiglia, ambiente, particolarità dei soggetti. Proviamo, in estrema sintesi, a proporre solo una scaletta di questioni terminologiche e di merito.
Innanzitutto, dialogo non è la chiacchiera, o la conversazione salottiera, ma neppure una civile pratica del discutere per trovare un accordo. Il dialogo, nel senso antico della nostra cultura europea, è il dialogo filosofico inventato da Platone, la cui opera è tutta dialogica. Nel suo significato originario, il dialogo è un continuo e mai finito movimento del confronto fra pensieri verso una meta di verità che sempre si sposta, si allontana e si complica. E’ naturale la disposizione del soggetto verso questa ricerca? Assolutamente no. Fondamentale è il ruolo che giocano due istituzioni che il cucciolo umano incontra da subito nella difficile costruzione della propria autonomia: la famiglia e la scuola. Queste istituzioni sono sempre immerse nel proprio tempo, da cui ricavano condizionamenti, sfide, rischi e possibilità. Il nostro è il tempo della rete e della globalizzazione. Teniamo, quindi, ferme sullo sfondo queste due cornici importanti che qui ci limitiamo solo a richiamare.
Soffermiamoci, invece, sulla funzione formativa che dovrebbe svolgere la scuola. L’educazione necessaria per imparare a dialogare non ha niente a che vedere con la comunicazione di contenuti o lo svolgimento pedante del programma delle singole materie. Essa va concepita come la convivenza attiva che ritroviamo nei dialoghi di Platone. Riporto una sintetica definizione di questo modo di dialogare proposta da uno studioso del grande filosofo greco: “L’educazione al dialogo in Platone è, innanzitutto, una convivenza: cioè non, alla lettera, un immobile condizione di vite abbinate, come istituzionalmente di un insegnante e di uno scolaro, ma è l’atto ogni volta nascente dell’incontro, del breve o lungo dialogo, nel cui fervore il maestro sfida l’allievo a pensare il suo apparirsi e a dirlo, e al tempo stesso è dall’allievo sollecitato ad approfondire il proprio pensiero. In questo atto, che Platone chiama Eros, Amore, i due viventi si fanno l’un l’altro intimi e accoglienti.” Infatti, non a caso nel “Simposio” vi è una delle definizioni più profonde della parola amore: “L’Amore ci svuota di estraneità e ci riempie d’intimità”. Questo pensiero vivente, esige una scuola viva che solleciti curiosità e passione; e miri a formare individui persuasi e non indottrinati.
Per concludere, un riferimento a due grandi filosofi del novecento che hanno ragionato sul significato non banale del dialogo: Karl Jaspers e Guido Calogero. Quest’ultimo è l’autore di un’opera classica sul tema: “Filosofia del dialogo” (Edizioni Comunità). Evidenzio un passaggio cruciale del suo discorso, là dove dice che la filosofia del dialogo richiede il rispetto di una premessa pregiudiziale: la decisione del soggetto di voler intendere l’altro. Questa premessa è squisitamente etica e si impara solo praticando il dialogo. E qui interviene Karl Jaspers quando ricorda che il dialogo è un atto di vita, una scommessa e una sfida in cui sono in gioco persone concrete e sempre diverse l’una dall’altra. E’ per questo che non è possibile semplicemente insegnare o imitare il dialogo, perché esso consiste nella sua unicità di volta in volta irripetibile. Esiste tra due se-stessi che sono solo questi e non rappresentanti di due generici, e perciò sostituibili, se-stessi. Entrambi i filosofi concordano su due punti. Il dialogo implica la reciproca disponibilità all’incontro, il reciproco riconoscimento. Però, questa dimensione di reciprocità non deve condurre all’annientamento dell’essere-io dell’uno in quello dell’altro. Al contrario, il dialogo si realizza di volta in volta tra due che, pur vincolandosi tra loro, devono continuare a restar due. Infine, la comunicazione esistenziale può accadere e dare buoni frutti solo se si è in grado di mantenersi in una condizione di dolorosa sopportazione della solitudine; cioè in uno stato di attesa, di speranza, perché essa non è sempre disponibile a comando, per cui quando si presenta va colta come occasione e vissuta come dono.
Al termine di questo rapido excursus, spero di aver chiarito che il dialogo è la conquista lenta lungo un processo che non a caso, Jaspers definisce con la bella metafora della lotta amorosa. “Il processo dell’esperienza del vero dialogo è una lotta unica nel suo genere, una lotta che è, ad un tempo, amore. E come amore, questo dialogo, non è l’atteggiamento cieco e indifferente nei riguardi dell’oggetto a cui si volge, ma è l’amore che lotta e che vede con chiarezza. E’ un amore che mette in questione, che crea difficoltà; è un amore esigente, che muovendo da un’esistenza possibile, afferra l’altra esistenza possibile.” Riflessioni utili nel nostro tempo babelico, spesso diviso tra chiacchiere inconcludenti e/o risse distruttive.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

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Fiorenzo Baratelli

È direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara. Passioni: filosofia, letteratura, storia e… la ‘bella politica’!


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