Federico Varese, il profe-detective che racconta la ‘Vita di mafia’
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Grandi delitti e ordinari problemi, piccole debolezze, vezzi e regole. La mafia prende forme concrete ed esibisce riti, abiti, tatuaggi sulla pelle, persino gusti cinematografici precisi, nell’analisi che emerge dall’ultimo libro di Federico Varese, professore di Criminologia all’Università di Oxford, nato e cresciuto a Ferrara.
Criminalità protagonista, quindi, ma raccontata da un punto di vista diverso sia dalle cronache di nera sia dalla letteratura e cinematografia noir, quella che viene fuori dal libro ‘Vita di mafia’ che Varese ha appena pubblicato per Einaudi e presentato alla libreria Ibs-Libraccio di Ferrara in una sala stracolma di pubblico. Tante persone, amici, familiari, conoscenti venuti ad ascoltare l’ex ragazzo del liceo Ariosto, che è diventato professore nella prestigiosa università di Oxford, specializzandosi in una delle materie più intriganti che si possa immaginare di poter studiare davanti a una cattedra che si tende ad associare a un antico e paludato sapere.
Federico, invece, esce dal suo studio e scende in campo andandosene in giro per i luoghi più malfamati del mondo per incontrare i boss della mafia russa, quelli delle Triadi di Hong Kong e in visita agli uffici della Yakuza giapponese, che non è fuorilegge e quindi compare con un indirizzo e una targa ufficiale sul portone. Nella sala all’ultimo piano di Palazzo San Crispino affacciata su piazza Trento Trieste a Ferrara, venerdì scorso il docente ha raccontato del suo incontro con un boss che viveva in una casetta di lamiera per potere portare avanti la sua attività in maniera indisturbata. In un’altra occasione, invece, si è trovato a solcare l’ingresso di una suite da favola in uno dei grand hotel storici e più prestigiosi di Roma. Un’altra volta è finito in una delle baracche sovraffollate di Dubai che nessun turista conosce, perché si trova in una zona senza strade né servizi igienici all’ombra della città dei grattacieli stratosferici. “Di Dubai – dice Federico – ce ne sono due: quella del lusso che supera ogni limite del buon senso, come la montagna di neve realizzata dentro un centro commerciale che di fatto si trova su un pezzo di deserto, e poi la Dubai dove vivono le persone che l’hanno costruita o lavorano per chi abita quei palazzi e super negozi, come era il caso del mio informatore, un autista di taxi di nazionalità bangladese, che lì continua a stare alternandosi a dormire nello stesso letto di un connazionale che fa turni in orari diversi per poter mandare più soldi possibile a casa, a una famiglia che non vede da dieci anni”.
A dialogare con Varese era Benedetta Tobagi, che ha sottolineato anche la particolarità di una “scrittura che entra in prima persona nel racconto, ponendosi in contrasto con quello che è abbastanza un tabù nel mondo accademico”, dove di norma il testo è improntato a un’asettica oggettività: in ‘Vita di mafia’ invece prende la forma partecipata del racconto diretto, con immagini dell’autore stesso inserite nel repertorio fotografico del libro.
“Il volume – ha spiegato Varese – parte da un incontro con il boss della criminalità locale della città di Perm, nella Russia degli anni Novanta, dove sono rimasto per un anno a cercare di capire cosa spinge un criminale a fare questa scelta di vita. Lui aveva un ristorante e sedeva in fondo alla sala. Lo ascoltavo un po’ sorpreso mentre mi raccontava che in Russia, secondo lui, si era ormai persa la morale e che gli unici a continuare ad averla erano la Chiesa e loro, i criminali! In effetti anche i disegni che si fanno tatuare sulla pelle sono quasi tutte riproduzioni di immagini religiose. È importante capire queste cose; proprio la possibilità di indagare i motivi che sono alla base di scelte così radicali mi ha spinto a fare queste ricerche. Il mio obiettivo è riuscire a vedere i criminali come sono nell’intimità, nella loro normalità, fuori dall’enfasi di un film d’azione e da una visione che li relega in una sfera altra da noi. Per combatterli bisogna capirli e per capirli bisogna umanizzarli”.
Particolarmente interessante il capitolo ‘Immagini di sé’, dove Varese indaga su come i criminali si rappresentano, a partire prima di tutto dai riferimenti cinematografici. Secondo lo studioso il primo modello a cui i mafiosi americani si rifanno è quello di un cortometraggio (‘Musketeers of Pig Alley’, ndr) diretto da David Griffith nel 1912, dove c’è una gang che il regista fa vestire in modo elegante, che non corrisponde a quello della vita reale, ma finisce per influenzarla. “Al Capone – racconta l’autore – vede quel film e inizia a indossare abiti simili al boss protagonista sul grande schermo. Tra tutti i film, comunque, il più influente è stato ‘Il Padrino’ di Coppola. Completamente errato nella ricostruzione della realtà criminale, perché ad esempio non è mai avvenuto che lo scettro del comando venisse passato di padre in figlio. Però i mafiosi hanno amato in maniera stratosferica questo film, che rappresenta la mafia come violentissima e che non fallisce mai. Il mafioso italo-americano si impadronisce di questo marchio e imita la sua narrazione. C’è chi ha imparato l’italiano apposta, anche se prima non ne conosceva che poche parole”.
“Certe rappresentazioni – dice Varese – aiutano a consolidare l’identità, mentre altre, come quelle dei film di Scorsese, non trovano popolarità in quel mondo, per non dire di Ciprì e Maresco, i cui film non sono proprio sopportati perché mostrano un aspetto squallido. Il fatto è che ciò che scriviamo o mettiamo in scena ha un effetto immediato, nel bene e nel male”. E a cercare di scardinare il mito arriva lui, elencando vizi, ambizioni e punti deboli dei criminali con l’aria del giovane investigatore di una detective story.
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Vita di mafia di Federico Varese, 268 pagine, 19 euro, Einaudi 2017
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Giorgia Mazzotti
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