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Qualche anno fa vedevo tra le prime file dei seminari o delle conferenze su o intorno a Giorgio Bassani un ragazzo biondo-rosso che mi guardava con occhio entusiasta. Prendeva appunti e in certi passaggi, che evidentemente condivideva, annuiva vigorosamente. Ho chiesto in giro e mi si riferisce che è uno degli operatori di Viale K e lavora a stretto contatto con il prete di strada Don Bedin. Ecco uno stralcio della sua biografia:
Raffaele Rinaldi di origini pugliesi e ferrarese d’adozione […] Lavora come operatore sociale da 15 anni collaborando con l’associazione Viale K-Onlus di Ferrara impegnata nel contrasto alle forme di povertà estrema e nella tutela di persone a rischio di esclusione sociale […] Nel 2005 fonda e coordina lo sportello ferrarese dell’ Associazione Avvocato di strada che offre consulenza legale, gratuita e qualificata, a favore dei senza dimora”.
Ci siamo piaciuti subito. La sua discrezione nell’accostarsi a temi che si capiva lo interessavano me lo rese immediatamente simpatico nel senso originario del termine: colui “che suscita un sentimento d’attrazione, una disposizione favorevole.” All’uscita del suo libro, ‘La metafisica dello sterco’, con un misto di stupore e riconoscenza mi ritrovo tra coloro che vengono ringraziati e ho pensato a quale fosse la ragione, ben presto capibile: la spiegazione che secondo le mie capacità ho saputo dargli dell’insegnamento e delle scelte operati da Giorgio Bassani.

Già il titolo e la copertina rivelano lo stimolo che ha condotto Raffaele a narrare un’impresa, a mettere in parola un ‘fare’ che rovescia estraendolo dalla merda fisica e mentale, dando la priorità all’essere. Nel racconto che dà il titolo al libro la considerazione finale così suona: “Tornando indietro verso l’uscita, mi resi conto che faceva più puzza la miseria che abita gli uomini, che tutto l’edificio in cui abitano gli uomini in miseria. Mi chiedevo se non fosse nient’altro che questa la verità custodita dalle muse” (pp. 59-60).
La copertina è un d’après dell’opera forse più celebre di Giorgio de Chirico, ‘Le muse inquietanti’. Il titolo, invece, così provocatorio, riprende quello della IV epifania, come chiama Raffaele i racconti che compongono il libro. Il quadro rivisitato rivela una capacità di trovare, attraverso la metafisica, la capacità di conoscenza che riporta tutto ai problemi essenziali dell’essere tra cui quello fondamentale del “chi siamo?”.
Nel quadro dechirichiano delle Muse inquietanti si vede in lontananza, alla fine del palcoscenico su cui si posta la scena con i due manichini senza volto, la rappresentazione del Castello estense. Nella re-interpretazione di Rinaldi il quadro viene proposto ‘metafisicamente’ con in fondo il Palazzo degli specchi ormai diruto. Il Palazzo degli specchi, per chi non è ferrarese, fu uno degli scandali più fragorosi degli ultimi tempi nella virtuosa Ferrara, e qui si presenta e viene raccontato con gli occhi ciechi delle sue finestre a specchio infrante e vuote:
“Enormi blocchi gemelli si replicavano davanti a noi, in una serie intervallata da magre torri rossicce più alte, con un’ossessione geometrica e regolare fino ad attorcigliarsi su se stessi” (p. 52). Lo scandalo nella storia reale si è abbattuto sulla politica, viene abilmente sfruttato da leghisti e 5stelle, la cui protesta ha piegato l’amministrazione solo da poco a intervenire sul mostro in abbandono, destinando l’area e la ricostruzione ad abitazioni a prezzo controllato e a uffici pubblici. Ecco che la metafisica s’appropria della realtà fattuale per vederne la sostanza sotto l’apparenza:
“L’intero complesso residenziale, dunque, ci abbracciava nella completa desolazione, immobile e muto, nella metafisica di quelle prime ore oblique, con il loro lento trascorrere inesorabile” (p. 53).

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Raffaele Rinaldi

Meno convinto mi lascia l’accostamento della metafisica dechirichiana con quella accolta da Rinaldi, attratto da quella scuola che progredisce e nasce a Ferrara tra le avanguardie storiche di primo Novecento.
Il narratore accompagnato da uno degli ‘ultimi’ che abitano quel luogo s’addentra tra odori acri, meglio puzze, che si fanno sempre più intensi fino al terrazzo, letteralmente cosparso di merda che industriosi scarabei stercorari, fedelmente ricostruiti nella versione del quadro, rotolano giù dal palazzo come palle “così perfette da non sembrare più neanche merda, ma pensiero, logica, azione e senso comune”. L’ossessivo allegorismo del racconto diventa così atto d’accusa, come del resto in tutti i dieci racconti o epifanie. Così la narrazione si conclude, accettata l’umanità fatta di sterco, vomito e sudore, con la considerazione finale riportata più sopra.

Il mondo degli ultimi rivela però una sua particolare gentilezza che si vena di pietas come nel primo racconto, ‘La libertà dell’Airone’. Un padre in carcere riceve la notizia che il figlio è morto in un banale incidente automobilistico sulla superstrada del mare. Il narratore lo accompagnerà a vedere la tomba del figlio là vicino a Codigoro, il paese teatro del romanzo più potente di Bassani, ‘L’airone’ appunto. Ripercorrendo il racconto bassaniano s’avviano verso Codigoro per approdare al modesto loculo dove giace il figlio morto.
Quasi ogni racconto ha un nume tutelare riconoscibile nelle citazioni e nelle situazione. Il più surreale di tutti, anche il più concitato e forse il meno risolto, è quello che porta il titolo ‘Cinque minuti di ordinaria follia’, centrato sulla visita a Palazzo dei Diamanti della mostra ariostesca che ebbe tanto successo l’anno scorso. Un accavallarsi di pensieri tra sogno e realtà, fondato sui pericoli e i danni della guerra e della violenza, siglata da un titolo, ‘La grande Psicomachia’, che rimanda a uno dei testi esemplari del Rinascimento e che in italiano suona come ‘Il sogno di Polifilo’ ovvero ‘Hypnerotomachia Poliphili’. Ma qui non si tratta di una battaglia d’amore in sogno bensì, per usare una definizione ormai abusata, dei danni della guerra. La chiusa è esemplare: “Usciti fuori mentre il palazzo svaniva alle nostre spalle sempre più lontano, rivolgendomi a Ludovico e Astolfo, dissi: Amici devo confessarvi che avevo perso la testa, anzi, mi ero perso completamente come in un sortilegio d’odio. Ma era così reale!” (p. 88).
Infine l’incontro con lui, il sommo poeta, in quello che reputo il racconto più ficcante dei dieci, ‘La banda degli “Ignoranti fottuti”’, dove il disprezzo e a volte l’odio per coloro che abitano la “ Ferrara di sotto” si scontra in modo palese con coloro che si sentono forti per il fatto di abitare il ‘di sopra’.
Raccontando l’indifferenza senza scampo con cui due giovani assassini hanno ucciso un anziano per derubarlo e poi nasconderlo in un luogo immondo, così commenta Raffaele Rinaldi questo racconto esemplare che, come tutto il suo libro, dovrebbe innescare un processo di compassione ovvero di sofferenza condivisa:
“Tutto è accaduto al di sotto dell’umanità, come se non esistesse un nesso tra causa ed effetto, come se mancassero le emozioni, quelle più primordiali come l’amore e l’odio, come si fosse appiattita la differenza tra cose e persone, vita e morte” (p. 94).

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.


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