Da Valter Zago
Non è mai troppo tardi perché si svolga, a Ferrara, un convegno di respiro nazionale sul “Futuro del Delta del Po” promosso dalle maggiori associazioni ambientaliste. Anche se questo, a onor del vero, va a svolgersi quando molti buoi sono scappati. Ed il taglio tratteggiato nella illustrazione ufficiale del convegno dimostra incomprensibile timidezza verso quanto sta avvenendo in particolare sul versante emiliano-romagnolo. Tanto che, come da programma, nessun dirigente di vaglia nazionale verrà a metterci la faccia. Più che parlare del futuro sarebbe ben più costruttivo e franco parlare del Delta odierno e dei suoi due parchi regionali. Del resto è oggi fuori discussione – a legge quadro vigente sulle aree protette italiane, la 394/1991 – che in primo luogo i parchi naturali, poco importa se essi siano nazionali, regionali o interregionali, devono costituire il motore della conservazione della biodiversità e la promozione dello sviluppo sostenibile. Che senso ha allora proporlo oggi per il futuro? Mah!? Non è forse da tempo alle nostre spalle la diatriba internazionale su “parco santuario” o “parco laboratorio” – fresca controriforma del corpo forestale dello Stato permettendo? E’, invece, ora una novità assoluta la scesa in campo, ad imitazione dei celebri specchietti, dell’inedito Parco-Mab acchiappa allodole. Pardon turisti dei «mercati più ricchi del Nord e Centro Europa», come recita la suddetta illustrazione. E sotto il paludamento Mab-Unesco cosa si trova? Sorpresa delle sorprese: non il “Parco unico” – quello, appunto unico al mondo, proposto dal nuovo trio ‘Franceschini-Zappaterra-Bratti’ –, bensì, a fianco del suo confratello Parco regionale veneto del Delta del Po, quello “Intercomunale del Delta del Po dell’ Emilia-Romagna”. Il più grande, con i suoi 54.000 ettari, parco naturale intercomunale del mondo. A tanto è arrivato il sempre più esangue riformismo in salsa emiliano-romagnola. La sua deriva rosée e bislacca l’ha ben spiegata forte e chiaro Lanfranco Turci – in passato il miglior erede dell’indimenticato Guido Fanti alla guida della nostra regione – ben prima che si scomodasse a farlo indirettamente Walter Veltroni, parlando del mancato ambientalismo del PD. Il declassamento di fatto del nostro parco da regionale a intercomunale è stato acclamato solennemente nella recente occasione del rinnovo degli organi dirigenti della cervellotica Macroarea di cui fa parte il Parco. Suo nuovo Presidente è stato eletto il Sindaco di Comacchio, Marco Fabbri, ed a far parte del consiglio direttivo sono stati chiamati oltre al Sindaco di Ferrara, nella sua qualità di Presidente dell’omonima Provincia, solo ed esclusivamente Sindaci, ad eccezione dell’ex assessora della Provincia di Ravenna, Mara Roncuzzi. E’ forse un male che Sindaci in carica siano chiamati a presiedere un parco? Sì, lo è, perché ciò snatura, volenti o nolenti, il carattere istituzionale del parco naturale che universalmente è inteso, nell’accezione più nobile, come un ente speciale per la gestione di un ambiente altrettanto speciale, data la sua eccezionalità, per la quale appunto va evitata una gestione di tipo ordinario e general generica, come lo è inevitabilmente quella di un qualsiasi Comune. Ma questo nel nostro caso concreto è ancora il male minore. Perché con la presidenza del predecessore di Marco Fabbri si è instaurato il diritto di veto dei Sindaci sui propositi del Parco. Non si contano le occasioni in cui il già presidente, Massimo Medri, con fierezza politica ha dichiarato pubblicamente che «io faccio solo quello che i miei Sindaci mi chiedono di fare». E se i Sindaci, puta caso, sono in disaccordo tra di loro? Semplice, quella tal cosa non si fa. Così il regolamento della pesca della “Stazione Valli di Comacchio” deliberato dal Consiglio direttivo del Parco dieci anni orsono non è mai approdata nell’Assemblea del Parco per la sua approvazione. Motivo? Ufficialmente non si dice. Ufficiosamente ad alta voce si afferma che «non piace ai Ravennati». Lo stesso dicasi per i tre “progetti d’intervento particolareggiato” previsti dal Piano della “Stazione Volano-Mesola-Goro” negli ambiti di Abbazia di Pomposa, Paleoalveo del Po di Volano, Torre della Finanza e pertinenze. Sono stati elaborati, pubblicati, fatti oggetto di mostre e incontri pubblici, ma non hanno mai terminato il loro iter approvativo. Motivo? Lascio ad altri l’intuibile risposta. A seguire un’altra perla della stessa fattura. Nel programma del secondo mandato del Sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani, è previsto l’impegno per l’inserimento del Parco Bassani in quello del Delta del Po, come sua nuova e settima ‘stazione’. Circa un anno fa, in un incontro politico di ‘maggioranza’, a chi chiedeva lo stato dell’arte di questo impegno programmatico, Tagliani, tagliando corto, ha risposto papale papale: «i sindaci del Delta non la vogliono». Punto. E la nostra Regione, con la fama ormai sbiadita di maestra di buon governo, cosa fa? Niente! Possibile? Sì, per legge. La nostra Regione per i suoi parchi regionali non ha mai nominato Presidenti e organi direttivi, nei quali non è mai figurato nessun rappresentante della Regione. Di più e di peggio, la Regione non ha mai controllato gli atti principali della loro gestione. Ancora, quando sul finire del 2011, la Regione, in ossequio al decreto ‘milleproroghe’ dell’allora ministro Calderoli, ha posto insieme in fretta e furia insipientemente Parchi naturali, Riserve e Paesaggi protetti, in cinque unici calderoni gestionali denominati ATOB, l’acronimo di ‘Ambito Territoriale Ottimale per la Biodiversità’, ovvero ‘Macro aree per i parchi e la biodiversità’ – ‘macro’ per non mettere mano alla dimensione ‘micro’ di buona parte dei suoi parchi –, inebriata dalla propria creatività acrobatica li ha privati assurdamente dei loro Comitati tecnico-scientifici, considerandoli follemente alla stregua di un inutile orpello del passato, di cui sbarazzarsi al più presto. Così, mossa da spirito di emulazione, la ‘Macroarea 4-Delta del Po’ ha voluto poi far di peggio. Ha rimosso anche il frutto più prezioso ed esemplare dell’intensa attività svolta in passato dal Comitato tecnico-scienifico del suo Parco: il ‘Master Plan della Costa del Delta del Po’. Un sistema, questo, molto innovativo e sofisticato di monitoraggio geo-referenziato dei caratteri salienti del Delta del Po, finalizzato a promuoverne un adattamento sapiente e flessibile ai cambiamenti climatici attesi. Lo ha spacchettato e riposto in un armadio. Fine del monitoraggio. Possibile? Sì, perché bisogna risparmiare in una Regione, che vanta tanti primati, ma non quello per la spesa – tra le più basse d’Italia – a favore delle proprie aree protette. Così, paradossalmente, alla creazione della macroarea del Delta del Po corrisponde un inversamente proporzionale microfinanziamento regionale. Che per le Valli di Comacchio è stato letteralmente dimezzato, con un decurtamento annuo di oltre un milione di euro. Per non parlare della pianta organica del personale del Parco, altrettanto decurtata dal Parco stesso. Che bisogno c’è di tanto personale per attirare i turisti del Nord Europa sotto l’egida dell’Unesco? Di peggio in peggio, la cura ambientale della Salina di Comacchio è stata recentemente tolta dal Comune di Comacchio al Parco per trasferirla al CADF, l’azienda acquedottistica del Delta ferrarese. Questa sì che se ne intende di acque, mica la Macroarea 4-Delta del Po, ora in ben altre cose affacendata. A quando l’affidamento al CADF anche della cura della Sacca di Goro e delle Valli di Comacchio? Sempre in nome del risparmio, si fa per dire, e dell’attrazione di nuove frotte di turisti, ben s’intende. Parlando sopra a proposito della querelle ‘parco santuario’ o ‘parco laboratorio’, si è accennato alla controriforma del Corpo Forestale dello Stato. Che va purtroppo a consolidare anziché ridurre la sovranità limitata di buona parte dei parchi italiani, che includono le tante Riserve naturali dello Stato, sulla cui gestione i parchi stessi come è noto non mettono sostanzialmente becco. Poco si parla in generale anche di quello che capita nella gestione dei demani degli enti locali, che all’interno dei parchi sono altrettanto ricchi di biodiversità. La vera diversità quantitativa e qualitativa tra il parco veneto del Delta del Po e quello emiliano-romagnolo non è data tanto da una diversa sensibilità delle due Regioni in materia ambientale, quanto piuttosto dalla straripante quantità di demani pubblici presenti in quest’ultimo. Ebbene, a tale riguardo, è giusto ricordare che oltre alle Valli di Comacchio nessun altro bene ambientale di proprietà degli enti locali è stato trasferito in gestione al parco. Tantomeno lo scrigno di biodiversità costituito nel Comune di Ravenna da Punte Alberete, Valle della Canna e Bardello, che da oltre sette anni anni giace in una condizione a dir poco pietosa e scandalosa. Ritornando a parlare della Regione Veneto, è giusto sottolineare come essa, a differenza della limitrofa Emilia-Romagna, non se ne stia al balcone in sciatta indifferenza a dare le spalle ai propri parchi naturali. Nel caso del Parco del Delta del Po veneto, la Regione, oltre ad esercitare un controllo stretto su tutti i sui atti amministrativi e a nominarne gli organi di gestione, nomina pure nel Consiglio Direttivo dell’Ente quattro propri rappresentanti. A differenza della Regione Emilia-Romagna, che con aulico distacco non ne nomina proprio nessuno. Solo in un caso il modello gestionale veneto ha fatto scuola recentemente in Emilia-Romagna. Guarda caso proprio nella figura del Presidente del Parco del Delta del Po che in Veneto è sempre stato o un Sindaco o il Presidente della Provincia di Rovigo. Viceversa la sponda opposta del Po ha fatto scuola nell’esercizio del diritto di veto politico. I Veneti si oppongono oggi a ricomprendere nel perimetro del Mab-Unesco il versante ravennate del Delta del Po. Questo molto sinteticamente è oggi lo stato dell’arte. La qualificazione a Riserva della Biosfera del Delta del Po è funzionale sostanzialmente a camuffarne le croniche miserie. E non a rimuoverle. L’eccezione conferma la regola. In un solo caso la Regione Emilia-Romagna ha prescelto un suo rappresentante in nome del Delta del Po: la consigliera regionale Marcella Zappaterra è stata nominata Delegata della Regione Emilia-Romagna al Mab-Unesco. Del resto è stata proprio lei ad affermare a proposito della mancata applicazione nel Delta del Po di quanto previsto dal quarto comma dell’art. 35 della legge quadro sulle aree protette (parco interregionale o nazionale) che solo grazie all’Unesco «laddove altri hanno fallito, si sono abbattute le barriere burocratiche». E’ utile ricordare per completare il quadro che la Delegata Mab è stata Presidente della Provincia di Ferrara quando l’Unione delle Provincie Italiane – la Zappaterra in prima fila – rivendicava lo scioglimento dei Parchi regionali per accasarne le funzioni alle Province in cerca di una nuova identità. Inutile, invece, girarci attorno: l’obiettivo che si prefiggono di raggiungere i promotori del “parco unico” del Delta del Po non è la creazione di un parco interregionale, ma la cancellazione della previsione della sua istituzione da parte della legge 394. Perché con l’aria che tira e l’esercizio del diritto di veto di qua e di là del Po, qualora malauguratamente il Parlamento dovesse approvare le proposte di modifica in peggio della 394, non si raggiungerà alcuna intesa tra Stato e Regioni entro i tempi brevi prefissati per l’istituzione del ‘parco unico’. E così il nuovo Trio Lescano – dopo aver contribuito a togliere di mezzo pure ‘la spada di Damocle’ della possibile istituzione del Parco nazionale del Delta del Po – potrà a squarciagola cantare «per fortuna che il Mab-Unesco c’è!»
Valter Zago
Comacchio, 5 ottobre 2017
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