Si parla molto di fake news e post verità, ma bisognerebbe forse ripartire proprio dal concetto stesso di verità e dalle ambiguità in esso contenute. Mettendosi in allerta laddove la verità sia intesa in senso dogmatico: è questo un abbaglio, perché la verità non è un monolite, ma un prisma dai mille riflessi; è un mosaico cui manca sempre un una tessera per essere completato; e quel tassello mancante ha la capacità di sovvertire la comprensione d’insieme della scena e dunque il suo reale significato.
Beati coloro che credono, perché si appagano e si nutrono delle loro certezze. La verità trascendente è un postulato che si accetta o si respinge. La verità di fede è rassicurante. Ma la verità dei fatti non è afferrabile e definibile una volta e per sempre: è un continuo percorso di ricerca con approdi incerti e potenzialmente sempre suscettibili di revisione. E’ la “verità sostanziale” a cui fanno riferimento i codici deontologici dell’informazione e alla quale dovrebbero attenersi non solo i giornalisti ma ciascuno di noi, con spirito libero da pregiudizi.
La verità è il frutto potenzialmente sempre mutevole di una indagine continua, inesausta. Alla verità ci si avvicina coltivando il dubbio e ponendo continuamente in discussione ciò che appare vero, per verificare se quella convinzione ha un senso oppure è infondata, fragile e cedevole. Vale in questo senso ciò che ha teorizzato Karl Popper: la ricerca della verità procede per congetture e confutazioni, si formulano ipotesi e le si pone in discussione continuamente, al vaglio della ragione e alla prova dei fatti: finché l’ipotesi regge la si può considerare atendibile, quando viene sconfessata diventa necessaria una revisione del modello o una rivoluzione integrale del paradigma.
In questo stesso senso, ha perfettamente ragione Gustavo Zagrebelsky quando afferma che si serve la verità coltivando il dubbio.
Questo non significa però accreditare qualsiasi fantasia come potenzialmente vera, perché ciò che si asserisce e che si definisce provvisoriamente vero deve aderire al reale, essere documentato, comprovato e verificabile. Le cosiddette post verità, laddove affermano il diritto di ciascuno di argomentare il proprio punto di vista sanciscono un sacrosanto principio, in ragione del fatto che dalla natura complessa e prismatica della verità si possono originare interpretazione difformi, ciascuna delle quali può essere specchio di un frammento di quella complessa realtà che non esaurisce il carattere di verità ma ne mostra una parte, secondo la logica del “d’altronde“… Ma ciò che si afferma deve essere comprovabile, viceversa è una pura fantasia senza fondamenta.
Se poi riferiamo il ragionamento alle fake news, oggi così di moda e al centro dei dibattiti, ritroviamo una vecchia conoscenza: un tempo le chiamavano più semplicemente “balle”! E sono sempre esistite, talvolta alimentate da ignoranza e superficialità, in altri – più gravi – frangenti, dalla volontà di strumentalizzare i fatti in funzione di precisi interessi precostituiti.
Ma il problema attuale è che ora, rispetto al passato, è molto più complesso il meccanismo della smentita. Il tradizionale sistema della rettifica, che sui giornali e nei sistemi tradizionali di informazione pur con qualche stortura almeno teoricamente poteva funzionava in maniera accettabile, nel mondo del web risulta del tutto inadeguato allo scopo, poiché non è in grado di ripercorrere a ritroso i nodi delle condivisioni che qualsiasi messaggio veicolato attraverso la rete è potenzialmente in grado di compiere in milioni di direzioni. E questo è un punto significativo che riguarda le fake news come pure le post verità e qualsiasi contenuto viaggi in rete.
E allora bisogna fare molta attenzione e maneggiare con cura l’informazione senza cadere in tranelli ed equivoci: il pluralismo delle opinioni è sacro e va tutelato da ogni tentativo di censura. Badando bene però al rischio che le post verità non si riducano banalmente e pericolosamente alle verità dei post, cioè di tutto ciò che – complice in primo luogo Facebook – circola sul web e che si considera vero per il sol fatto che qualcuno lo afferma.
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Sergio Gessi
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