LA RIFLESSIONE
Riti apotropaici, gesti anti jella e oggetti portafortuna:
fenomenologia della superstizione oltre la postmodernità
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Siamo un popolo di scaramantici, lo dobbiamo ammettere. Superstizione e credenze antiche e di nuovo conio movimentano le nostre vite supportando scelte e comportamenti, sopperendo a quella razionalità di fondo, ferma e determinata, che non caratterizza certamente la penisola italiana. Siamo fantasiosi, creativi, chiassosi, ingegnosi, confusionari e, almeno fino qualche tempo fa, ottimisti, ma abbiamo la costante tendenza ad appellarci sistematicamente al rito apotropaico, il gesto propiziatorio, l’oggetto portafortuna, il pensiero divinatorio. Che il contesto sia la partita di calcio piuttosto che l’esame di qualche tipo o l’intraprendere nuove situazioni, tutto fa pensare al bisogno di affidare l’esito a qualcosa o qualcuno che dall’esterno ci sollevi di responsabilità, spinga verso ciò a cui miriamo, anticipi l’evolversi dei fatti, garantisca positività e successo, eserciti reconditi poteri che non abbiamo, permetta di arrivare dove l’umano conosciuto non arriva.
Una specie di via preferenziale che ci raccomandi e accompagni a buon fine attraverso il cornetto rosso, il ferro di cavallo, il quadrifoglio verde e numerosi animali propiziatori come coccinelle, gufi, elefanti con la proboscide alzata, rane, tartarughe, ricci, maiali e perfino ragni. E poi ancora, ci si aggrappa alle credenze legate alla numerologia, agli eventi atmosferici, ai giorni, mesi e stagioni. Piuttosto che niente, anche statue e monumenti con la nomea di ‘portabuono’ vengono letteralmente consumati da centinaia di migliaia di mani, piedi e labbra che quotidianamente cercano contatto per ingraziarsi la buona sorte. Assistiamo ai contorsionismi di chi passa in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, intento a ruotare il piede sui testicoli del toro mosaicato; sorridiamo a chi sfrega una moneta sul muso del cinghiale in Piazza del Mercato Vecchio a Firenze, aspettando il nostro turno; ammiriamo un po’ impressionati il bacio delle visitatrici sulle labbra della statua funebre del Guidarello a Ravenna. E si continua con la statua di Giulietta a Verona e quella di Madama Lucrezia a Roma, alla quale deve essere tributato un inchino da chiunque passi e lo sfioramento di una mammella riservato a coloro che cercano serenità.
Gesti, talismani, formule e parole, cerimoniali veri e propri, ce n’è per tutti; di epoca in epoca le credenze popolari hanno lasciato al loro passaggio segni inequivocabili legati a quegli aspetti antropologici profondamente insiti nelle liturgie scaramantiche tanto criticate e invise ma così tanto ancora presenti, trasferite riviste e corrette nell’attualità. In epoca recentissima, una famosa casa d’Asta di Chicago ha ritrovato un manoscritto di H.L. Lovecraft, in un negozio di oggetti e materiali da illusionisti, dal titolo ‘The cancer of superstition’. Si è scoperto che l’opera era stata commissionata allo scrittore dal mago illusionista Harry Houdini affinchè si prestasse come ghost writer per denunciare la superstizione come atteggiamento deleterio. Houdini sosteneva che la superstizione sarebbe un’inclinazione innata dell’uomo che si annida nelle persone inette, refrattarie alle idee scientifiche. Dichiarava di credere nel progresso scientifico nonostante il suo lavoro avesse a che fare con la ‘magia’. Il manoscritto tratta numerosi argomenti tra cui il culto dei morti, le credenze sui lupi mannari e il cannibalismo. La stessa visione di superstizione che lo accomuna al filosofo David Hume, di cui leggiamo un secolo prima: “Debolezza, paura, malinconia, insieme con l’ignoranza, sono dunque le vere fonti della superstizione! E’ la paura che comanda, che spinge a far tutto per una finta felicità. Anche a sacrificare qualcosa di se stessi, la propria libertà, soprattutto.”
Parlando di figure propizie o avverse, che possono determinare gli eventi e gli esiti, non possiamo non citare il gatto nero, protagonista di più di una pagina di romanzi e narrazioni di tutte le epoche e latitudini. E il felino è il protagonista di uno dei racconti più celebri di Edgar Allan Poe ‘Gatto nero’ (1843), appunto. Un animale forte e bello che con il passare del tempo viene maltrattato dal padrone che inizialmente lo adorava. L’escalation della violenza termina con l’impiccagione di Plutone, il gatto, ad un ramo di un albero. La stessa notte divampa un terribile incendio e la casa viene distrutta; rimane in piedi solo un muro e su quella superficie compare l’immagine in bassorilievo di un enorme gatto con la coda aggrovigliata al collo. L’animale brutalmente ucciso viene ben presto sostituito con un altro esemplare per allontanare il fantasma del suo predecessore nei momenti allucinatori del padrone. L’uomo, sempre più alterato dall’alcol e dai deliri, tenta di ucciderlo ma chi ne fa le spese è la moglie, che tenta di fermarlo. Quando la polizia irrompe nella casa per indagare sulla scomparsa della donna, non trova nulla di compromettente. La scena finale di questo agitato racconto, ci propone un lungo, insistente miagolio, simile al lamento umano, che proviene da una parete. I poliziotti trovano proprio là il cadavere della donna e il gatto murato vivo. Il racconto ‘La patente’ (1911) di Luigi Pirandello, parla invece di un menagramo, l’impiegato del banco dei pegni Rosario Chiarchiaro, che compare davanti al giudice D’Andrea non tanto per querelare due giovani che al suo passaggio lo avevano respinto facendo le corna contro il malaugurio, ma per chiedere ufficialmente la ‘patente di jettatore’, allo scopo di onorare l’immagine attribuitagli dalla comunità. Il giudice, esponente della legge e della razionalità, si trova davanti a un caso paradossale mai capitato. Dopo non poche elucubrazioni e molti patemi d’animo, il magistrato acconsente di sottoscrivere quanto richiesto, convinto anche dalle prospettive che gli vengono paventate da Chiarchiaro: “ Tutti ci credono! E ci sono tante case da gioco in questo paese! Basterà che io mi presenti, non ci sarà bisogno di dire nulla. Mi pagheranno per farmi andare via…”. Cosa non da poco, vista la perdita del lavoro al banco dei pegni e le figlie che nessuno vuole maritare per paura della jella…
Tante storie farcite di credenze popolari, paura dell’ignoto, equilibrismi tra il reale e il leggendario, convinzioni tramandate da chissà quante generazioni e sorrette dalla volontà di mantenerle vivacemente in essere. Ecco il substrato della superstizione. Ed ora, se permettete, vado in giardino a cercarmi un quadrifoglio…
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Liliana Cerqueni
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