La questione della ‘femminilizzazione’ forzata della lingua
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Da Laura Rossi
Non si comprende come il “non declinare al femminile possa essere sessista” e che l’uso di “presidente” o di” ministro”, riferito ad una donna, sia uno svilimento del ruolo della stessa, che ricopre determinate cariche.
E’ sconcertante la “femminilizzazione” forzata e cacofonica di termini maschili.
I termini come “avvocato”, “sindaco”, “prefetto”, “ministro”, “direttore”, sono stati spesso preferiti anche dalle donne per autodefinirsi al fine di sottolineare la dignità della propria professione, altrimenti svalutata se declinata al femminile.
Per non parlare dell’effetto ridicolizzante tipico del suffisso “-essa” in casi come “sindachessa”, “medichessa”, salvandosi solamente “dottoressa” e “professoressa” già in uso da moltissimo tempo.
Perché il lessico parlato dovrebbe subire un’evoluzione? Perché una desinenza linguistica di una qualifica professionale?
A chi interessa se ad emettere una sentenza o una diagnosi medica sia un uomo o una donna?
I termini come “presidenta” o ” ministra” non si possono sentire, così come “avvocata”, “sindaca” “assessora”. “Prefetta”,poi, è semplicemente orribile.
Un ingegnere, per esempio, può essere maschio o femmina, ma non sarà la desinenza a stabilirne le capacità.
A questo punto, per par condicio, dovremmo avere l'”assessoro”, il “geometro”, l”infermiero”, il “pianisto”, l’autisto”, il “piloto” ecc.?
La nostra lingua italiana non può essere storpiata da chiunque, perché Dante Alighieri, a sentir “architetta”, potrebbe uscire dalla tomba armato di bastone e riempirci di legnate.
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