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di Federica Mammina

Il 15 febbraio scorso il Parlamento europeo ha approvato il CETA, acronimo per Comprehensive Economic and Trade Agreement, ovvero l’Accordo economico e commerciale globale tra Cananda e Unione europea. Questo accordo prevede l’istituzione di un mercato libero tra questi paesi, privo cioè di dazi doganali, del tutto simile al sistema adottato tra gli stati membri dell’Unione stessa. L’accordo è stato approvato con 408 voti favorevoli, 254 contrari e 33 astenuti, cui l’Italia ha contribuito con solo 27 voti a favore, a fronte di 35 contrari. Durante la votazione Forza Italia si è schierata a favore, Movimento 5 Stelle e Lega Nord contro l’approvazione, mentre il Partito Democratico si è spaccato in due.

Precisazione non irrilevante perché l’approvazione del CETA è al momento provvisoria: il testo dovrà poi passare al vaglio dei parlamenti dei singoli stati membri che dovranno esprimersi definitivamente sull’accordo, che non entrerà in vigore se anche uno solo di loro si pronuncerà negativamente. Si tratta però di un unicum, un’eccezione alla regola che prevede la sola votazione del Parlamento (trattandosi di fatto di un accordo negoziato tra il Canada e tutta l’Unione europea) concessa a fronte di una mobilitazione popolare di 3,5 milioni di persone che hanno firmato una petizione contro il CETA. Più nello specifico l’accordo, che principalmente fissa come obiettivo l’abolizione del 99% dei dazi doganali, prevede anche la reciproca possibilità per le imprese europee e canadesi di partecipare a gare d’appalto per la fornitura di beni e servizi, il riconoscimento reciproco di alcune professioni come quella di ingegnere, architetto e commercialista, consente agli investitori di beneficiare di condizioni eque e paritarie nei rispettivi mercati, e prevede la tutela del marchio di alcuni prodotti agricoli e alimentari tipici.

Si tratta quindi di un accordo che a tutti gli effetti instaura un mercato libero non solo di beni, ma anche di persone, servizi e investimenti. A fronte dei molti vantaggi assicurati dal libero mercato, altrettanti sono i dubbi sollevati. Uno di questi riguarda il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitori e stati che prevede, per la composizione delle stesse, il ricorso ad un collegio arbitrale, definito da molti un tribunale privato, composto da soggetti con provata esperienza nel settore del diritto internazionale pubblico; soggetti che però, si sostiene, tendenzialmente sono più propensi ad appoggiare gli interessi dei privati (leggi, trattandosi di investimenti, multinazionali) piuttosto che gli interessi pubblici. Altra forte critica mossa al CETA riguarda la possibilità assicurata alle multinazionali statunitensi di bypassare una eventuale mancata approvazione del TTIP (fratello maggiore del CETA), il Transatlantic Trade and Investment Partnership, o Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, fortemente osteggiato anche questo per mezzo di petizioni e mobilitazioni di vario genere, rispetto al quale il presidente Trump non si è ancora espresso, volendo a quanto pare osservare gli effetti della Brexit e del CETA stesso se verrà approvato.

Le multinazionali statunitensi infatti potrebbero beneficiare dei privilegi previsti dall’accordo molto semplicemente eleggendo sede legale in Canada. Altro dubbio, che ci coinvolge maggiormente, è quello che riguarda i prodoti alimentari: si teme infatti che la creazione di questa area di libero scambio generi un abbassamento degli standard qualitativi che notoriamente in Europa sono molto più alti rispetto alla maggior parte dei paesi terzi, e che determinano tra l’altro il successo dei prodotti italiani all’estero. Secondo Paolo De Castro, primo vice presidente della Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento europeo, ciò non avverrà perché, come fa sapere lui stesso dal suo sito personale, “Il CETA contiene uno storico riconoscimento della tutela di un paese terzo delle produzioni di qualità: è stata inserita nell’accordo raggiunto con il governo di Ottawa una lista di 172 Dop e Igp delle quali 41 sono eccellenze italiane, che rappresentano la quasi totalità dei prodotti Dop e Igp esportati in Canada”, e ancora “Con il CETA l’Unione europea fa un accordo con una potenza economica atlantica, mantenendo i suoi standard sanitari e ambientali e compiendo un primo e concreto passo avanti nella lotta all’italian sounding”.

C’è da precisare però che, con riferimento agli standard sanitari e ambientali, l’accordo recepisce sostanzialmente quanto previsto dall’Accordo sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie (allegato dell’Accordo che istituisce l’Organizzazione Mondiale del Commercio), secondo cui è vero che gli stati sono liberi di adottare le misure che ritengono più idonee allo scopo di tutelare la salute degli uomini, degli animali e delle piante, ma nella misura in cui si generi il minor ostacolo possibile al commercio. E quindi rendere libera la circolazione delle merci tra due stati che adottano standard diversi, impedendo nella misura maggiore possibile che questi producano ostacoli, non può che voler dire un livellamento verso il basso degli standard medesimi. Per quanto riguarda invece la lotta alla contraffazione è difficile rinvenire nell’accordo specifiche disposizioni in merito, ed è ancor più difficile capire come il riconoscimento di 41 Dop e Igp (che costituisce senz’altro un passo avanti se si considera che ad oggi gli Stati Uniti e il Canada non riconoscono questi marchi) possa efficacemente combattere il fenomeno della contraffazione e dell’italian sounding, laddove non venga contestualmente impedita la produzione di prodotti del tutto simili a quelli italiani.

Per intenderci, il formaggio parmesan potrà ancora essere prodotto e venduto, purchè nella confezione non vi siano richiami all’Italia mediante immagini e colori. È quanto ha peraltro confermato Alessandro Bezzi, presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano, affermando che “Il trattato commerciale non interviene in modo del tutto restrittivo sulle produzioni canadesi che si ispirano alla Dop originale (con l’uso, ad esempio, della denominazione “parmesan”), ma vieta di associarle  ad elementi di “italian sounding” (il tricolore, città o monumenti italiani, ecc.) che risultano ingannevoli per i consumatori”. Siamo sicuri che quando i canadesi si troveranno accanto al parmesan un Parmigiano Reggiano che, anche senza dazi, costerà certamente molto più del cugino d’oltreoceano, sapranno che spendendo quella cifra comprano un prodotto unico al mondo, di elevata qualità nutrizionale, oltre che frutto di lavoro sapiente di aziende che, questo lavoro, lo tramandano da generazioni? Se è fuor di dubbio che il ricorso all’italian sounding rafforzi il richiamo ad un’origine geografica, è altrettanto certo però, e dimostrato da ricerche di mercato, che anche solo l’uso di un nome come quello nel caso specifico di parmesan (definito generico dai produttori per allontanare da sé l’accusa di contraffazione) è in grado di generare nel consumatore la certezza di comprare un prodotto italiano.

La cultura, anche del cibo, si sa che è una delle armi migliori contro la contraffazione. Vale la pena precisare infine che il tema del latte e dei suoi derivati tocca nel vivo anche il Canada perché, citado sempre Paolo De Castro, “con questo accordo il Canada aumenterà la quota di importazione di prodotti lattiero caseari, al momento attuale molto limitata”. Molto limitata è vero, perché in Canada la produzione e il mercato del latte sono regolamentati da un regime di quote produttive gestito da una commissione che fissa quantità e prezzi di riferimento, cui si aggiungono le quote e tariffe di importazione; questo sistema rigido, che ha garantito fino ad ora la stabilità e la sicurezza dei produttori di latte per i quali è ancora una produzione remunerativa, è destinato a cambiare con l’applicazione del CETA che aprirà le porte al latte e ai prodotti lattiero caseari europei provocando una caduta dei prezzi.

Dubbi, molti dubbi. Ciò che è sicuro è che non si tratta di una materia di immediata comprensione, e soprattutto non sono facilmente individuabili le ripercussione che un tale accordo potrebbe avere sul mercato, sugli investimenti e sulle persone, per quanto le intenzioni possano essere le migliori. Più di ogni altra cosa c’è quindi da augurarsi che il risultato ottenuto da milioni di persone non sia vano: che i parlamentari non strumentalizzino, come troppo spesso accade, a fini elettorali una materia così rilevante per la vita dei cittadini, ma che esprimano realmente attraverso il voto il volere dei cittadini; e che ancor prima i cittadini facciano di tutto per farsi un’idea sul CETA e che non sentano soltanto il diritto di manifestare il proprio pensiero, ma si sentano in dovere di manifestarlo, pretendendo che questo risuoni nelle aule parlamentari. Che il CETA venga o meno approvato, un voto informato, espressione dei cittadini, e dato secondo coscienza, è un voto democratico.

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Redazione di Periscopio



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