SOCIETA’
Scriviamo di più: una pratica utile per una società pensante
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E l’Italia scoprì che i giovani non sanno più scrivere. Sì, beh d’altronde non scrivono mai. O meglio, scrivono ma in modo del tutto inadeguato: non frasi, ma prototipi di strutture di un linguaggio che non è più il loro. Sarebbe semplice dare la colpa ai mezzi tecnologici, che di fatto sono il primo capro espiatorio di tutti questi mali da cui è affetta la lingua, ma forse si può allargare il discorso a una concezione più ampia del tema. Ecco, non sono il più adatto a dire che scrivere è importante, lo faccio quasi di mestiere e mi riesce facile. Non mi reputo uno scrittore, ma ho abbastanza cura della trasposizione dei miei pensieri in lettere e parole. A volte lo trovo quasi divertente, così come mi diverte poter seguire le regole grammaticali inventando qualcosa di originale dal punto di vista della costruzione dei vari discorsi.
Ora, non vorrei annoiare con questo totale girare intorno alla faccenda, ma diciamo che, per corroborare l’ipotesi di un’Italia sgrammaticata, io sfido chiunque, oggi, a trovarsi a che fare con il vero atto dello scrivere. Gli appunti, grazie alla tecnologia, si prendono audio, quando servono, i messaggi hanno lasciato spazio alle note vocali, persino le abbreviazioni o le emoticon sono diventate obsolete (e qui ci starebbe bene una faccina che piange). Non si scrive quasi mai, soprattutto non si prende un foglio e non si ha la voglia di macchiarlo con i nostri pensieri.
I ragazzi, alle scuole superiori, non sono altro che il riflesso di quella che è la società nel momento in cui si evolve, respira, diventa. E se non hanno più praticità con la scrittura è semplicemente perché ben pochi oggi sono riusciti a conservarla. Si scrive poco perché il tempo della quotidianità non ci dà modo di poter leggere con calma ciò che si scrive o che viene redatto per fare informazione o per comunicare. Nei primi siti web le pagine venivano intese come “da riempire” e mi ricordo che gli ipertesti erano ancora strettamente viziati dalla forma cartacea editoriale: lunghi periodi, foto qua e là, fitti paragrafi che si rincorrevano senza sosta.
Oggi nessuno leggerebbe più una pagina dei primi anni Duemila o ancora peggio di metà anni Novanta. Si preferisce la brevità, l’immediatezza, una certa discrezione nell’uso dei vocaboli più ricercati, pochi sinonimi e tantissimi hashtag (ne parlai nella mia tesi di laurea del 2009 e li usavano praticamente solo in Usa, all’epoca). Non c’è nulla di nuovo nel constatare che questa forma mentis ha ormai pervaso la società dei lettori/scrittori anche casuali o dei praticanti in età scolastica.
Io sono arrivato in un’epoca in cui ancora si prediligevano i temi scritti per più di quattro pagine di un foglio protocollo anche se proprio mentre stavo per conseguire la maturità venne fuori la novità del saggio breve o dell’articolo di giornale. A me piaceva scrivere già all’epoca e girai intorno agli argomenti per interminabili colonne piene zeppe di perifrasi talvolta inventate e disposte a casaccio, ma molti dei miei compagni preferivano rimanere nelle quattro facciate, rimanere in tema e rileggere più volte le proprie frasi, commettendo ugualmente errori, ma ponderando sul valore del testo appena prodotto.
Dai, lo ammetto, anche allora si cercava di ottenere il massimo risultato con il minor sforzo possibile, però quanto meno si prendeva la penna in mano e si sporcava la carta, cosa nobilissima tra l’altro. Anzi, si aveva la cura di separare l’azione dello scrivere, prima in brutta e poi in bella copia, solo con tanto esercizio era possibile provare a buttar giù pensieri direttamente sul foglio protocollo, saltando un passaggio. Significavano decine di minuti risparmiati, che potevano essere impiegati in altro modo, sempre all’interno del tempo dedicato al fantomatico “tema”.
Ma non si scriveva solo per “italiano”, ogni materia aveva la sua buona dose di manualità espressa attraverso il magnifico mondo degli appunti, in cui si doveva essere velocissimi per mettere nero su bianco le spiegazioni dei docenti dando loro una logica e una struttura quasi in tempo reale. Oggi forse si fa ancora, all’università, nelle classi più diligenti, ma non è più dirimente per la buona riuscita di un corso, trovando molto spesso sunti e guide alla studio già comodamente in Rete. Non c’è da meravigliarsi quindi se i giovani non sanno più scrivere. Lo fanno, in un modo che non è più consono ai canoni di scrittura che la società ha sempre conosciuto e lo hanno fatto in modo estremamente veloce perché il mondo testuale e paratestuale si è evoluto — e continua a farlo -, in maniera sempre più vorticosa e complessa.
Questo è anche colpa, ovviamente, di una maggior fiducia nella multiculturalità più o meno comunitaria, che ha dato risultati importanti nel modificarsi della lingua. Ben venga, secondo me, l’evoluzione dello scrivere ma che venga fatto in modo da rispettare i canoni tipici della lingua italiana, con frasi che riescano a esprimere la bellezza di una lingua vivissima e poco difettosa da un punto di vista grammaticale. Che ci siano più ore da dedicare alla sua pratica è sicuramente importante, ma lo è altrettanto poter fare in modo che la lingua stessa venga valorizzata dai nuovi strumenti attraverso cui viene veicolata.
Questo è forse un grande scoglio che si deve superare nei programmi didattici delle scuole superiori: riuscire ad insegnare l’italiano che sia adeguato ai tempi dettati dai nuovi mezzi di comunicazione, periodi brevi, coesi, concisi, essenziali ma esaustivi. Solo così sarà possibile rimediare alla situazione grave ma non irrimediabile di questi giovani scapigliati che peccano di anaffezione alla lingua. Ecco, sì insomma, la speranza è solo una: facciamoli scrivere di più questi giovani, con ogni mezzo, facciamo poesia, facciamo teatro, facciamo dei reading, scriviamo!
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Diego Gustavo Remaggi
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