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La mia Milano, oh la mè Milàn ‘scunsciada’ dalle turbe di faccendieri senza morale alcuna, i quali hanno tradotto il fatidico francese “les affairs sont les affaires” nel più italico cazzi nostri e fanno tutto ciò che gli conviene, basta che gli convenga davvero.
Non si creda che questo breve scritto sia il lamento postumo di “un c’era una volta” estromesso dalla cerchia dei Navigli, per carità!, già quando misi il mio piede sinistro la prima volta sotto la Madonnina (tutta “dora”, mica come le altre innalzate nelle piazze italiane, di pregiato marmo bianco, quello usato da Michelangelo), sulle porte dei palazzoni grigi ricordo il terribile cartello “non si affitta a meridionali”, i poveri meridionali, i quali arrivavano alla buia stazione centrale con I valigioni di cartone, legati con la corda a trattenere l’odore di salame che gonfiava il coperchio marrone, odore acre misto al profumo di arance ormai schiacciate nel lungo viaggio dal sole alla nebbia.
Era una Milano già birbona, i lavori della metropolitana avevano scatenato le brame di faccendieri, imprenditori, palazzinari, politici e intellettuali d’accatto come i giornalisti, chiamati a far da megafono all’impresa grandiosa di scavare enormi buchi e oscure gallerie sotto la città: intanto, i favori s’intrecciavano, destra e sinistra si stringevano sotto i tavoli, non toccatine erotiche, di mano in mano passavano sostanziose buste cariche di zeri. Chi aveva il coraggio di denunciare o semplicemente di protestare, veniva allontanato dalla zuppa, Craxi aveva già preparato il trabocchetto per Riccardo Lombardi, “la barca va”, diceva rivolto all’amichetto Berlusconi, chiamato allora “l’imprenditore rosso”, abbiamo una buona facciata di sinistra, ideologizzava Bettino, ma abbiamo pancia capitalistica, mai più Marx a Milano, diceva, al massimo Proudhon, chissà perché. Mai più Marx.
E fu così che cominciarono gli scandalosi massacri della vecchia Milano, cancellando memoria: lo scempio di Brera, di corso Garibaldi, dove Bava Beccaris alla fine dell’Ottocento aveva massacrato la povera gente che chiedeva soltanto pane, la rovina a Porta Ticinese, case ristrutturate per farne abitazioni nuove, uffici, studi a disposizione dei nuovi intellettuali del danaro.
L’antica, nobile Milano, capitale italiana dell’arte, venne distrutta. E I vecchi abitanti dove li mettevano? E i commercianti e gli artigiani? “Foera di ball”, dicevano gli speculatori, li mettiamo nei nuovi quartieri satellite, innalzati apposta per ospitare gli sfrattati, come al Gratosoglio, che in una lunga inchiesta su “Il Giorno” definii i nuovi lager, con trapposti ai lager di lusso (Milano 2 allora in costruzione) erbetta verde all’inglese, alberi. A quelle mie affermazioni molti milanesi amici mi guardarono male, erano abituati – loro – agli affari.
Ma tutto precipitò quando il prefetto Mazza coniò il principio degli opposti estremismi e i sogni del Sesantotto precipitarono nell’orrore del sangue e dell’odio.
Si stava costruendo la nuova Italia, lasciateci lavorare. Non ci si stupisca se “Mani pulite” è naufragato nel truogoloc dei faccendieri, degli affaristi e degli speculatori, lì in quel truogolo la pappa la trovi sempre… Nel ’72 arrivò a Milano la commissione antimafia del Senato per condurre un’inchiesta (o una informativa?) sugli intrecci tra mafia e affari, mi chiamarono per avere notizie (allora ero capocronista del “Giorno”), voleva tracce veritiere sul percorso sotterraneo dei soldi e del potere. Dissi che la mafia stava mangiandosi la città, che i boss avevano stretto alleanza con gli storici imprenditori meneghini. Un nome, mi chiesero. Sindona, risposi. Uno della commissione si alzò dalla sua poltroncina nella saletta ce era stata messa a disposizione dalla Prefettura. “Mi scusi – disse – chiudo la porta”. La porta rimase chiusa per anni.
E adesso con la faccenda dell’Expo chiuderanno ancora la porta? “Chi volta el cu a Milan, volta el cu al pan”, si dice sotto la Madonnina d’oro. Boh.

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Gian Pietro Testa



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