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Cento, Ferrara-Italia.
Un ragazzino di quasi 13 anni, originario di Comacchio, che desidera con tutto il cuore partire, come già i fratelli maggiori, con il generale Giuseppe Garibaldi e le sue Camicie Rosse. Era il 1866. Quel ragazzino, Antonio Cavalieri Ducati, alla guerra che dovrà unire l’Italia non ci andrà. Maturo il cuore, ma lui no, troppo giovane. È quel desiderio che gli cresce dentro. Poi si farà uomo con il rosso nel cuore, diventerà ingegnere. Sempre con quel rosso nel cuore. Sarà lui a fondare qualche anno più tardi la fucina rossissima del mito su due ruote, accorciando il nome. Solo Ducati.

Questa e altre le storie raccontate dall’Archivio Storico comunale e dall’assessorato ai Servizi Bibliotecari di Cento attraverso una mostra documentaria dal titolo “1866: i 20 giorni di Ferrara capitale” sulla terza guerra d’indipendenza nazionale.

Quella che si è aperta il 10 dicembre scorso al Palazzo del Governatore nella piazza centrale della cittadina non è una semplice mostra documentaria sulla Terza Guerra di Indipendenza e sulle testimonianze dei garibaldini centesi. È qualcosa di più.
È uno zibaldone fatto di scritti, fotografie, dipinti, stampe, oggetti che si intrecciano con speranze, sogni, delusioni, attese. È una sfida lanciata alla storiografia nel tentativo di rintracciare nelle azioni militari di un popolo non solo il suo carattere, ma anche il risultato della storia corposa che ha alle spalle. Durante la conferenza di apertura della mostra, venerdì mattina, di fronte ad una platea di studenti del liceo Cevolani, si sono riannodati fili, si sono raccontate storie che “per ovvie motivazioni non trovano spazio nei libri di scuola superiore”, come ha ricordato Luigi Davide Mantovani, curatore della mostra e già autore del volume “Ferrara e l’Unità d’Italia” (Este ed.).

Nella mattinata è alla fine emerso come di vicenda in vicenda, seguendo il fil rouge del desiderio di riscatto di popolo (quello italiano), spesso frustato da vittorie che sembrano sconfitte o viceversa, e perciò ruggente, si sia infine giunti fino a qui, ai giorni nostri. La mostra sui documenti e i fatti riguardanti gli 800 garibaldini (di cui 70 volontari centesi) ci spiega le strade che si sarebbero potute prendere, e quelle che di fatto restano immortalate dalla memoria e dai documenti.

Ci ritroviamo nelle sale dall’intonaco bianco a confrontare e valutare immagini in bianco e nero, dipinti, fogli di giornale e lettere che testimoniano la guerra contro la potenza dell’impero austriaco, al fianco dei Prussiani, alleati formidabili seppure destinati in breve a scomparire riassorbiti da un’altra potenza nascente. Giorni, gloriosi o meno, comunque dimenticati. Giorni che hanno visto protagonista la nostra provincia: per venti giorni Ferrara è stata “capitale” del Regno, con il re Vittorio Emanuele accolto in città e Cento che diventa area strategiche per l’esercito.

Ma al di là dei dati storici, nella fredda e nebbiosa mattinata di venerdì scorso, qualcosa accomunava i personaggi e le storie in mostra e i loro primi fruitori, i ragazzi della scuola Cevolani, a simbolica rappresentanza di una marea di studenti come loro. L’età, prima di tutto: molti dei 70 volontari centesi erano giovanissimi, anagraficamente ‘liceali’, quando decisero di offrire la propria vita per la causa dell’Unità nazionale. Un fatto innegabile che la mostra ci racconta molto bene. Quello che però non ci dice è cosa ne è stato dell’ardore che animava quei giorni, di quella fede, di quella volontà di credere e di scommetterci la vita.

Esisterebbe dunque un gap etico. Visitare le sale, poche a dire la verità, con le teche e i pannelli, serve anche a chiedersi da dove sbuchi lo scetticismo, a volte spinto fino al nichilismo, che sembra avere la meglio ai giorni nostri. Quel non sapere per cosa morire, e quindi per cosa vivere. Forse le risposte sono le stesse che cerchiamo quando ci domandiamo dei tanti fatti di terrorismo dei nostri giorni che hanno, non a caso, per protagonisti proprio dei giovani.
Vale la pena di vederla questa mostra anche per quello che non espone. Il monumentum garibaldino è sigillo inenarrabile di qualcosa che sentiamo di avere perso. E che va trovato urgentemente.

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Daniele Modica

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