Il jazz si nutre anche di silenzi e relazioni
Il ‘santone pazzo’ Thelonious Monk e lo stile che fa scuola
Tempo di lettura: 5 minuti
di Andrea Pieragnoli
“Una nota può essere piccola come la capocchia di uno spillo o grande come il mondo: dipende dalla tua immaginazione. Ciò che non suoni può essere importante tanto quanto ciò che suoni.”
E’ una delle frasi che compaiono in un avviso che Thelonious Monk indirizzò nel 1966 ai componenti della sua orchestra, affinchè prendessero miglior coscienza della loro arte.
Credo che in questa affermazione siano sottintese due cose: lo studio e l’ascolto. Pare strano sentirlo affermare da chi fu definito “il santone pazzo del jazz” per i suoi estremi virtuosismi, la sua imprevedibilità e
il suo ricorso ad una sorta di istinto primitivo dell’uso delle note, ma al suo modo di fare jazz si ispirarono le generazioni successive. Fu dunque un Maestro, e i Maestri insegnano.
Non ho qui intenzione di scrivere una monografia di Monk, ma quella sua frase mi sembra invece un buon punto di partenza per introdurre la mia esperienza di alunno della AMF partecipante al corso di Musica d’Insieme con l’ AMF Band del Maestro Federico Benedetti.
In questa Band mi ci sono trovato quasi per caso, molto per sfida perchè amo fare i passi lunghi un po’ più della mia gamba, così da obbligarmi a compiere ogni volta un piccolo salto e ad essere sempre molto motivato nell’impegno, questa volta nei confronti della musica per ciò che mi da e per ciò che Lei pretende da me.
Il repertorio della Band è sostanzialmente riconducibile a quelli che sono definiti Standar Jazz, cioè temi musicali molto noti che si prestano ad una esecuzione secondo quello stile e in cui gli esecutori ripropongono, a differenza delle cosiddette Cover, la propria interpretazione armonica, melodica e ritmica, anche stravolgendo totalmente i brani o apportando ad essi graduali variazioni.
Night and Day, Autumn Leaves, Caravan, All of me e via a seguire sono alcuni dei brani scelti dal Maestro in relazione al progredire del singolo e del collettivo, perseguendo l’idea di formare un repertorio significativo (per qualità e quantità) e condiviso (per possibilità dell’Ensemble) che si possa esprimere nel tempo e che formi una solida base di partenza per tutti.
L’organico di quest’anno è particolarmente ricco e formato da una bella sezione di 5 fiati che vanno dal Sax Baritono al sax Contralto, una Voce Cantante, un’Armonica, due Chitarre, un Contrabbasso e una Batteria.
Essere “dentro” a questo gruppo devo dire che regala una bellissima impressione sonora e sviluppa un bel po’ di endorfine! Sapere poi che tutto ciò funziona perchè ciascuno rispetta in maniera molto precisa il proprio ruolo e che dal ciò dipende la buona riuscita di tanta fatica umana, credo che possa a buon motivo chiamarsi orgoglio.
Già: orgoglio. E’ questo il trait-d’union riarmonizzato tra quanto Monk scrisse e la nostra Band: studio e ascolto.
Inevitabile allora un riferimento all’esperienza personale.
Alla mia prima lezione suonammo All of me, con l’imperativo del Maestro di mandare a memoria il pezzo e suonare senza spartito. Mi dissi: sono morto !
A metà della stessa lezione sinceramente mai avrei pensato che il Maestro mi avrebbe chiesto di fare un giro intero di assolo… e io che credevo che avrei accompagnato e basta … e io che non avevo mai suonato in pubblico … e io che sono solo tre anni che imbraccio la chitarra (e che le doti di chitarrista purtroppo non si trasmettono geneticamente) …
Mi ridissi: sono veramente morto !!! In fin dei conti morire a 60 anni su un palco è sufficientemente creativo. Ma non morii.
Qualcosa venne fuori, forse non lì, davanti alla platea, anzi, di sicuro non li, ma certamente dopo: l’orgoglio e la volontà di progredire.
Inevitabile dunque lo studio e l’approfondimento. Non ho mai studiato così tanto nella mia vita! Nemmeno all’Università (ok, forse faccio la figura del somaro … “ex” però)
Certo, fare cose per passione è altro dal farle per dovere. E’ di più, perchè diventano tue, sono te stesso.
Qualche tempo dopo, durante un mio assolo, vidi che i mei compagni di gruppo si muovevano a ritmo delle mie note. Con lo studio e l’applicazione ero riuscito dunque a far muovere gli astanti, a coinvolgerli, a comunicare con loro, e i miei precedenti silenzi, le mie precedenti titubanze, si erano trasformate in ritmo, tempo, spazio, pause, musica.
Merito di Federico, il nostro Maestro, che credo sappia che ciò che (ancora) non suoniamo è importante tanto quanto e più di quello che riusciamo a suonare. In buona sostanza il suo impegno è far si che venga fuori.
Far parte di un ensemble così numeroso e che sviluppa questo genere musicale, non essendoci parti scritte se non sommariamente indicate, ha senso però solo se si è disposti ad ascoltare.
Direi ad ascoltare se stessi e gli altri.
Saper ascoltare se stessi per ciò che si vuole comunicare, per dar valore alla proprie idee, ai propri punti di vista e alle proprie possibilità senza rincorrere ad emulazioni fuori luogo e senza senso e prendere atto delle proprie capacità, puntando ad esaltarle e migliorarle con lo studio e l’applicazione (ebbene si: Eric Clapton è soprannominato slow hand , io sarò ultra-manolenta).
Saper ascoltare gli altri perchè si è in un contesto dove il fare del singolo ha un grosso peso sul collettivo: stiamo tutti suonando con gli altri e per gli altri, e quando toccherà a me fare l’assolo, tutti suoneranno per me, e verrà tanto meglio quanto meglio si integrerà in quanto espresso dal gruppo e da quanto a sua volta il gruppo mi ascolterà.
Questo approccio viene definito con una parola magica, interplay, che Rodolfo Marotta definisce così:
Esso (l’interplay) definisce la particolare relazione che si crea tra i musicisti esecutori, relazione che influisce sulle qualità ritmiche, timbriche e improvvisative della musica prodotta.
Il jazz è musica che non può prescindere da questo aspetto che, nel corso degli anni, ha comunque subito numerose modifiche legate agli aspetti peculiari della musica stessa. L’interplay è concetto fondamentale ai fini dell’improvvisazione e quindi estremamente importante nell’ambito della musica creativa. In esso entrano in gioco capacità tecnica, cultura, capacità emotiva, ragion per cui il jazz è musica che richiede un grande feeling tra i musicisti, un affiatamento collaudato nel tempo e rende alla musica jazz la sua caratteristica di musica profondamente legata all’estemporaneità (Rodolfo Marotta – Definizione di una estetica del Jazz).
L’ambiente nel quale ci muoviamo è dunque quello sopra descritto, fortemente orientato dall’impegno personale. La voglia del sapere e del condividere trovano un secondo ma non secondario bellissimo riscontro nell’amicizia e nel rispetto dei ruoli e delle persone, a prescindere dal loro livello di preparazione, grazie proprio ad una profonda comunione di emozioni espresse dalle note che, seppur a volte piccole come la capocchia di uno spillo, possono contenere un mondo intero, proprio come sosteneva Monk. Un’esperienza unica, che vale la pena vivere.
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Redazione di Periscopio
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