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C’è sempre un occhio severo, un poco calvinista, pronto a dichiarare che difficile è meglio. Che difficile è più merito, è più formativo. È la pedagogia degli aggettivi che non si sa da che parte ripongano i loro significati, se non nella mente di chi li usa.
Io preferisco la pedagogia dei sostantivi e dei predicati. Tipo il sostantivo “studio” e il predicato “studiare”, cosa si studia e come si studia.
Quando si dice che lo studio e l’apprendimento devono essere difficili, cosa si intende? Si tratta di scegliere tra i vari aggettivi che fornisce il dizionario. Lo studio e l’apprendimento devono essere malagevoli, faticosi, incomodi, pericolosi, scabrosi, calamitosi (addirittura), indocili, intrattabili, angolosi, irritabili?
Vi rendete conto, se studiare ed apprendere comportassero tutti i sinonimi dell’aggettivo difficile, bisognerebbe apprestarsi come per affrontare una guerra.
Certo che facile è tutto un altro approccio. Facile ti viene incontro, facile si presta ad essere fatto, è agevole, pieghevole, trattabile, condiscendente, probabile, verosimile, dichiara il dizionario.
Allora studiare deve essere difficile? Perché rende virili nello studio, perché difficile è democratico e chi ha più virilità d’approccio potrà emergere sugli altri?
È l’idea che la fatica premia, con questa logica i facchini dovrebbero essere in cima alla scala della riuscita sociale.
Ma fatica intanto è un sostantivo e non un aggettivo come difficile. È sostanza e non qualità. Fatica è anche un predicato dello studio, quello serio, impegnativo per raggiungere un obbiettivo di apprendimento o una competenza. «Lo studio è fatica»: soggetto e predicato. È vero, non esistono scorciatoie per lo studio, stare ore sui libri, arrovellarsi per apprendere, per comprendere, per memorizzare, per progredire è davvero fatica. Fatica è patos, è partecipazione, è attendere con assiduità a qualcosa, è sforzo, è emozione. Ma cosa c’entra con tutto ciò il difficile, non è assolutamente detto che fatica significhi malagevole, scabroso, calamitoso.
C’è un bellissimo libro, forse un poco datato, ma ancora valido di Benjamin Bloom, di cui consiglierei la lettura o rilettura ai pedagogisti del difficile, Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, in cui l’autore tratta delle variabili dell’apprendimento: motivazione, tempo, caratteristiche del compito, il “difficile” come si noterà non è considerato. L’esito di ogni apprendimento umano dipende dalla natura di queste tre variabili.
La pedagogia del difficile scarica minacciosamente e moralmente ogni responsabilità sul singolo soggetto, senza tenere conto di storie e contesti.
Le nostre scuole e le nostre università vivono di compromessi didattici al ribasso, per cui i pedagogisti del difficile morale e gratuito spersonalizzano ogni storia personale ed ogni contesto.
Ogni individuo non è solo un’isola ma una situazione, una somma di situazioni, una narrazione. Entrando a scuola o all’università non è possibile che ogni studente lasci fuori dalla porta la sua storia, come hanno sempre preteso i sistemi scolastici tradizionali, con le classi e le aule, ogni individuo è se stesso con le proprie variabili la cui natura dipende dalle storie personali e le variabili sono proprio quelle di Bloom: la motivazione a, l’interesse per il compito, il tempo necessario. Sono queste le armi che sconfiggono il difficile che lo svuotano di significato, sono queste le armi che fanno di uno studente non qualcuno che cerca scorciatoie o il voto facile, ma qualcuno che apprende ad apprendere perché motivato, perché coinvolto dal compito, perché disposto a impegnare tutto il suo tempo e anche di più.
È più facile che sia la scuola a tradire il tempo d’apprendimento dei suo studenti che viceversa, perché ancora indifferente alla forza rivoluzionaria delle motivazioni, del coinvolgimento, del suscitare interesse e passione, perché spesso la natura dei compiti è incomprensibile ed estranea alle aspettative dei suoi alunni, perché i tempi sono contingentati, sincopati dalla dittatura dei programmi e degli orari.
Il difficile non è rivoluzionario, perché accresce la zavorra di chi è già carico di suo del peso degli svantaggi sociali. Altra cosa è accogliere ed accompagnare, altra cosa è incontrare le storie nel viaggio verso i saperi.
Ma tutto questo è un terreno troppo “difficile” per scuola e università che preferiscono, anziché affrontare le proprie responsabilità, imboccare la scorciatoia della pedagogia del difficile o il disimpegno del facile.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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