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Esiste una catena alimentare tra gli esseri umani in cui il più debole è sacrificato sull’altare del benessere personale dell’elemento più forte. Se poi entra in circolo nella catena alimentare anche il tema dell’immigrazione, l’altare in cui si offriranno più sacrifici sarà quello del dio denaro. In una sequenza infinita di dare e avere, c’è chi offre un servizio a chi, per ripagarsi dei soldi spesi, ne offrirà un’altro, lucrandoci, al proprio vicino più svantaggiato. Ne sono pieni i titoli dei giornali: lavoro in nero, falsi certificati, fittizi contratti di lavoro tutti finalizzati ad ottenere l’agognato permesso di soggiorno. Si è aperta a settembre, presso il Tribunale di Ferrara, la prima udienza preliminare che vede imputate un’impiegata della Prefettura, un’avvocatessa ferrarese e tre imprenditrici cinesi accusate di aver gestito un’organizzazione che, dietro pagamento di sette mila euro da parte di connazionali cinesi, presentava domande di permesso di soggiorno prodotte sulla base di falsi contratti di lavoro e di affitto di immobili.
Ci guadagnano professionisti e operatori italiani, ma ci guadagnano anche cittadini stranieri che, a loro volta, trovano il modo di lucrare alle spalle dei propri connazionali. Il lavoro in nero è la prima e più frequente delle piaghe indotte da questo sistema: che sia la badante per il genitore anziano o il muratore che costa una miseria per il proprio cantiere, la casistica vuole che il cittadino italiano si metta in tasca diverse migliaia di euro risparmiate non regolarizzando il lavoro del proprio dipendente. Dipendente che spesso è un cittadino irregolare che non può aspirare a niente di meglio, data la propria situazione ai margini della legalità. Una illegalità che persiste proprio per l’impossibilità ad ottenere un contratto di lavoro regolare che, di fatto, regolarizzerebbe un’intera esistenza.

Come detto, ci guadagna il cittadino italiano ma, spesso, ci guadagna anche il cittadino straniero, in un sistema di truffe incentivato proprio dalla lotteria “permesso di soggiorno”, il titolo che autorizza la presenza dello straniero sul territorio dello Stato Italiano e ne documenta la regolarità. In sostanza si tratta di trovare una persona dotata di partita iva o attività commerciale, che dichiari di assumerti e ti fornisca un alloggio. Da qui nasce il fenomeno dei “referenti nazionali”: stranieri già presenti in Italia che, dietro il pagamento di laute somme di denaro, fanno da intermediari con i propri connazionali per fornire loro i requisiti di lavoro e alloggio richiesti. Da qui nasce la tragedia dei lavoratori cinesi, stipati in piccoli laboratori-dormitori, costretti a vivere per lavorare e ripagare così il proprio “permesso d’oro”. E sempre da qui nascono le liti tra condomini che vedono un via vai, nella propria palazzina, di famiglie nigeriane sempre diverse tra di loro, fatti passare per ospiti ma in concreto subaffittuari del medesimo appartamento. Lo fanno per disperazione? Lo fanno per cattiveria? Lo fanno perché, in un sistema malato che li costringe ai margini della società, non gli resta che rispolverare l’atavica legge della giungla sui più deboli (i nuovi arrivati) dei loro connazionali? Le voci di critiche si susseguono: “sono troppi, ci rubano il lavoro, rubano in casa nostra, portano le malattie”. Le malattie però non fanno paura se “quello lì”, l’immigrato, ti offre quattro mila euro in contanti per portarti all’altare. La situazione è molto più complessa e trasversale del “noi con loro” o “noi contro di loro”. Se i carnefici fossimo solo noi la situazione sarebbe paradossalmente più tranquillizzante, ma se i carnefici sono anche “tra loro”, se a sfruttare i nuovi arrivati sono gli immigrati stessi, quelli di lungo corso, la situazione diventa ben più destabilizzante.

In una disputa in cui in palio è il permesso di soggiorno o l’asilo politico, a seconda delle situazioni, si combatte senza esclusione di colpi. Persone fuggite dalla guerra e dalla povertà, in cerca di un futuro migliore per sé e i propri familiari, diventano pedine, perdenti fin dall’inizio, di un sistema che non riesce ad arginare i suoi fenomeni di criminalità. Lo status di rifugiato viene riconosciuto dalla Commissione territoriale competente, in seguito alla presentazione della domanda di protezione internazionale, nel caso in cui lo straniero possa dimostrare il fondato timore di subire nel proprio paese una persecuzione personale, ai sensi della Convenzione di Ginevra. Sacrosanto diritto. Ma la maglia di protezione, spesso, si dimostra troppo larga se, consigliati da competenti addetti ai lavori, spesso avvocati, si riesce ad incasellare un percorso di vita in uno dei requisiti richiesti per ottenerlo. Molti “omosessuali” tunisini sono entrati in Italia per poi sposarsi successivamente con proprie connazionali.

Le numerose domande sulla giustezza di tutto ciò dovrebbero orientarsi, oltre che sul valore della persona, anche sulla correttezza del sistema. Gli immigrati, identificati in un qualsiasi paese della comunità europea, hanno l’obbligo di rimanere in quel paese fino al chiarimento della propria posizione. Mesi in cui la vita è sospesa, ospiti invisibili in attesa di un giudizio finale. Una condizione di vita che abbruttirebbe qualunque essere umano che si vedesse costretto a dormire in un ostello, a bivaccare in una panchina, passando intere giornate in attesa del nulla. Qualsiasi essere umano, appunto: noi come loro.

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Simona Gautieri



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