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Oltre oceano sono gli homework, da noi i compiti a casa. Un tormentone di questo scorcio d’inizio d’anno scolastico che fa dibattere non solo i nostri genitori e insegnanti, ma anche quelli degli Stati Uniti. Tutto il mondo è paese, dunque. Il Time del 30 agosto riporta i dati di una ricerca su pregi e difetti dei compiti a casa condotta dal professor Harris Cooper, psicologo della Duke University.
C’è da notare che oltre oceano sono più virtuosi di noialtri, perché da tempo il National PTA e la National Education Association hanno dettato le linee standard per l’assegnazione dei compiti a casa. Sostanzialmente dieci minuti al giorno per gli alunni della scuola primaria, venti per quelli della scuola media di primo grado, per poi passare a due ore per gli studenti delle superiori. Ciò nonostante alcune scuole elementari dal Massachusetts a New York hanno deliberato di abolire i compiti a casa. Sulla decisione non è che tutti i genitori siano concordi, soprattutto preoccupati che il non fare i compiti a casa possa compromettere l’accesso dei loro figli al college.
Di tutta questa vicenda fa sorridere la conclusione pilatesca della tanto sbandierata ricerca del professor Cooper per il quale i compiti a casa sono come le medicine e le diete, se ne prendi troppo poche sono inefficaci, se ne prendi troppe possono uccidere, se ne prendi la giusta dose non possono che far bene.
Se qualcuno pensava di ottenere suggerimenti per la risoluzione della diatriba dagli amici americani non può che rimanere deluso e continuare ad arrovellarsi sulla necessità o meno dei compiti a casa.
Compito è qualcosa che deve essere compiuto, portato a compimento. Nel caso specifico il luogo del compimento non è più la scuola, luogo da cui nasce la consegna, ma la casa, quindi un impegno disancorato dal suo ambiente originario, che deve essere eseguito in un altro contesto, un compito generalmente di apprendimento al difuori dell’ambiente consueto. È come uscire dall’ospedale e proseguire la cura a casa, senza però avere la certezza di prendere le medicine nelle giuste dosi.
Esercizio, memorizzazione, consolidamento di solito sono le prescrizioni dei compiti a casa, attività squisitamente scolastiche, se ancora non vigesse la consuetudine di fare dell’aula un luogo preminentemente di ascolto della lezione e di esecuzione dei compiti che lì non si chiamano più “compiti a casa”, e come potrebbe essere altrimenti, ma “compiti in classe” che sono la sintesi giudicante dell’efficacia delle lezioni più i compiti a casa.
Il compito a casa è una attività passiva, condotta in solitudine. Non esiste altro luogo capace di coltivare la solitudine collettiva, la solitudine dei tanti, come la scuola. Ognuno di fronte al sapere è da solo, è da solo che si deve misurare con il sapere e con la sua capacità di padroneggiarlo. Che il sapere e la conoscenza non siano una impresa collettiva è solo una convinzione delle nostre scuole, dove i nostri giovani se la devono sempre vedere in solitaria con le discipline. A scuola almeno puoi scorgere dall’espressione del volto di un compagno o di una compagna come se la sta cavando e così sentirti un po’ meno diverso, ma a casa che fai? Chiedi a mamma e papà, al fratello o alla sorella maggiori, ma allora cosa serve portare a compimento un compito che non sai compiere?
L’assurdità esercitante dei compiti, l’assurdità di prolungare a casa la scuola, che non c’è, è qualcosa che sa di seminario, di stanzoni dei collegi di una volta, con i ragazzi chini a fare i compiti in silenzio sotto la vigilanza di un chierico in cattedra. È l’aria mefitica di cui respirano ancora le nostre scuole incapaci di rinnovarsi, incapaci di dimostrarsi autosufficienti, concluse in sé agli occhi dei giovani. Di scuole totalizzanti, per le quali non c’è altro apprendimento al di fuori di esse, come se il tempo extrascolastico non fosse già colmo di compiti, di apprendimenti, che non avranno il blasone della formalità, che solo la scuola pretende di detenere, ma più modestamente hanno tutta l’importanza dell’esperienza personale propria degli apprendimenti informali e non formali.
Mentre l’Europa, dalla strategia di Lisbona del 2000 in poi, ha scoperto e rilanciato il valore e la necessità degli apprendimenti informali e non formali, la nostra scuola, quella dei compiti a casa, denuncia tutta la sua ignoranza e arretratezza. Ignoranza e arretratezza che le impediscono di dialogare e valorizzare le esperienze extrascolastiche dei suoi giovani, di integrarle ai propri curricoli e progetti, valorizzando l’iniziativa di ragazze e ragazzi anziché mortificarli nella impersonale solitudine dei compiti a casa.
Scuola e territorio ancora non hanno appreso a dialogare ed a integrarsi a favore dei giovani, del loro tempo di vita che viene prima di qualunque altro compito. Siamo ancora in attesa delle scuole aperte, tanto proclamate, anziché delle scuole chiuse e dei compiti a casa.
Sarebbe opportuno che prima di tutti fossero le famiglie e gli insegnanti a uscire dall’angustia dei loro argomenti e ragionassero seriamente del tempo di vita dei giovani, soprattutto come qualificarlo ed arricchirlo di esperienze utili alla loro realizzazione e ai progetti che ognuno di loro coltiva per sé.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it