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Confesso che il calcio mi interessa poco da quando, nella stagione di serie A 2001-2002, il Chievo arrivò al quinto posto.
Non fu certo il campo da solo a stilare quella classifica finale. Non era infatti concepibile che una squadra parrocchiale potesse umiliare le corazzate del calcio italiano. Specie quando un solo giocatore di queste tuttora costa come l’intero bilancio del Chievo, spinzini compresi.

Quello che, però, è successo sabato 3 maggio per la sfida conclusiva della Coppa Italia ha dello stupefacente e non nel senso che darebbe Giovanardi al termine.
Tutto, ma proprio tutto, in questa faccenda è fuori binario.
Le squadre finaliste erano Napoli e Fiorentina, ma ad aprire addirittura il fuoco con una pistola (una pistola!) sarebbe stato un tifoso della Roma, tal Daniele De Santis detto Gastone.
Ad oggi quello che si sa è che il bilancio è di dieci feriti, di cui uno gravissimo. Il suo nome è Ciro Esposito, ancora ricoverato al Gemelli dopo due interventi chirurgici in pochi giorni.
A stupire è che il presunto pistolero e il ferito più grave sono entrambi in stato di fermo.
La madre del tifoso partenopeo ha subito urlato la propria indignazione.
Va bene che i figli sono sempre “Piezz ‘e core”, ma mai un genitore col dubbio che se il sangue del proprio sangue è piantonato in ospedale può essere (dico, può essere) che prima non abbia preso parte a degli esercizi spirituali.

A proposito di polizia e carabinieri, dovrà pur finire prima o poi l’inconcludente, e talvolta cinico, ondeggiare da mal di mare di un’opinione pubblica che, a seconda dei casi, si scaglia contro gli uomini in divisa se calpestano dissenso e diritti con una brutalità inaccettabile per un Paese civile, salvo poi reclamare tolleranza zero di fronte a fatti come quelli di sabato scorso.
Sarà pure possibile tutto in un Paese abituato a tenere insieme diavolo e acqua santa, ma pretendere dalle stesse persone che siano, a piacimento, dei dottor Jekyll e dei mister Hyde, ha tutte le sembianze di una tiritera destinata, se tirata ancora per le lunghe, a presentare un conto finale assai poco piacevole.

Come siano andate veramente le cose è ancora in buona parte un punto interrogativo. È stato scritto che un veicolo di tifosi azzurri, non trovando parcheggio, avrebbe sfondato il cancello di un vivaio di fiori. Se così fosse, saremmo oltre l’iperuranio della sosta selvaggia.
Altri hanno detto che se qualcuno ha sparato è perché dall’altra parte sono partite le provocazioni. Marco Tardelli, quello dell’urlo del tre a uno in Italia Germania dell’82, ha addirittura insinuato che potrebbe essere stato un regolamento di conti.
L’impressione è che se si prosegue lungo la linea di queste congetture, si arriva prima o poi all’identità di Jack lo Squartatore.
Se poi si considera che tutte queste cose riguardano fatti accaduti prima di entrare nello stadio, e che gli scontri si sono estesi nella capitale a Ponte Milvio, Ponte della Musica e ponte Duca d’Aosta, non si sa davvero quale aggettivo cercare sul vocabolario.
Già, perché dentro l’Olimpico abbiamo tutti fatto la spiacevolissima conoscenza di tal Gennaro De Tommaso, meglio noto come “Gennaro la carogna”. Il capo della tifoseria partenopea lo abbiamo visto in cima ad una cancellata che indossava una maglietta con sopra scritto: “Speziale libero”. È il cognome dell’ultrà del Catania in carcere, che nel febbraio 2007 uccise l’ispettore di polizia Filippo Raciti, tirandogli addosso un lavandino (un lavandino!).

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‘Gennaro la carogna’

Ebbene, con uno che ha questa idea conclamata della giustizia ha preso accordi il capitano del Napoli, Marek Hamsik, per dare inizio alla partita.
Immaginiamo il tono dell’amabile conversazione, alla presenza di dirigenti e forze dell’ordine: “Che ne dice dottor Carogna di dare inizio alle ostilità?”.
Immaginiamo anche lo stato d’animo dei familiari del poliziotto ucciso durante un’ennesima mattanza, mentre lo Stato anziché rendersi conto in quale scantinato si è cacciato non vede niente di meglio da fare che umiliare una volta ancora chi ci ha rimesso la pelle per una partita di calcio.
Successivamente è stata cronaca di bombe carta (una delle quali ha mandato un vigile del fuoco all’ospedale), petardi e fischi all’inno d’Italia. Mentre in tribuna sedevano tra le più alte cariche dello Stato.

Straordinarie le dichiarazioni a caldo di alcuni papaveri. Due a caso.
Maurizio Beretta, presidente della Lega: “Questi episodi di violenza sono gravi e colpiscono lo spirito dello sport”.
Pietro Grasso, presidente del Senato: “Una partita di calcio non si può trasformare in una guerra tra bande con episodi di violenza. Questo è gravissimo”.

Gravissimo, semmai, è che uno il cui padre risulterebbe affiliato alla camorra e che indossa una maglietta che è l’esatto capovolgimento della gerarchia di principi che regge una società civile, sia l’esempio di un’interlocuzione privilegiata delle squadre di calcio e delle stesse istituzioni che dovrebbero garantire la sicurezza.
Gravissimo è che i più alti rappresentanti dello Stato non sentano il dovere di abbandonare uno spettacolo indecente che rappresenta lo sbracamento di un intero paese nel quale, come dicono le streghe nel Macbeth di Shakespeare, nessuno sembra più distinguere il giusto dal marcio.
Gravissimo è che “the show must go on” e che alla fine si assegni la Coppa Italia, perché il nome di una delle due squadre sia inciso nell’albo d’oro della competizione.
Gravissimo è che nel 2014 l’Italia continui a dare spettacolo di sé sulla scena internazionale come di un paese dai problemi volutamente ed eternamente insoluti, colpevolmente e superficialmente trascurati, inondati da sequenze interminabili di pareri di esperti ed opinionisti che continuano a girare all’infinito intorno al tema come fosse una rotatoria. Mentre molti dei nostri vicini di casa li hanno da tempo risolti e, perciò, sono più avanti di noi.
Gravissimo è che ogni santa domenica si continui a tenere impegnate schiere di agenti in assetto antisommossa, e a spendere soldi dei contribuenti, nel tentativo di scongiurare devastazioni di treni, stazioni, stadi e chissà cos’altro, per una partita e senza che mai nessuno paghi per i danni provocati.
Gravissimo è che la sera di sabato tre maggio sul campo dello stadio Olimpico di Roma sia stata l’Italia ad essere presa a calci.
E qualcuno avrebbe dovuto avere il criterio di andarsene con la Coppa sotto braccio, perché ammettendo che abbia avuto senso disputare la partita, alla fine non c’era alcun trofeo da alzare al cielo.
Perché tutti quella sera hanno, abbiamo, perso.

Pepito Sbazzeguti

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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