Detesto la Festa della Donna e non perché le donne non meritino una festa; detesto tutto lo sbandierare di mimose la cui unica attrattiva è quel meraviglioso giallo splendente e un po’ di profumo effimero; detesto gli auguri accompagnati da un grande sorriso sotto le mascherine, segni inseparabili del nostro tempo, e quel guizzo di protagonismo orgoglioso che le donne riservano alla data dell’8 marzo, camminando fiere per strada, almeno per un giorno.
Mi accorgo che, più che detestare, provo la tristezza destinata alla vista di creature fatte uscire dai recinti, esibite e coperte di complimenti e lusinghe per poi rientrare in cattività.
Le donne meritano ben più di questa ricorrenza che dura il tempo di 24 h e poi sfuma nel nulla, in attesa dell’annata successiva.
Penso a quelle costrette a rinunciare ai loro sogni annientandosi in vite che non appartengono loro, a quelle abbandonate a crescere da sole i figli, alle donne picchiate, derise, tormentate, uccise a ogni latitudine geografica, a quelle relegate al ruolo e funzione di ‘serva’, a quelle a cui è negato il lavoro perché donne e quelle che di notte non dormono col pensiero di come far campare la famiglia. Penso a tutte coloro che in un modo o nell’altro hanno dato un pesante contributo all’immagine di genere ancora molto lontana da equità, giustizia, merito e riconoscimento.
Altro che festa! Non è sufficiente festeggiare, anche se il significato dell’8 marzo attinge a una storia passata da non dimenticare: quel 1911 a New York nella fabbrica Triangle perirono in un incendio 146 persone fra cui 123 donne di origine italiana ed ebraica, e quell’8 marzo 1917 a San Pietroburgo, quando le donne manifestarono per invocare la fine della guerra in una Russia ridotta alla fame.
La storia non va dimenticata e la storia delle donne men che meno, accompagnata com’è da un lunghissimo iter lastricato di sofferenze e grandi vuoti sociali. Quella che è stata proclamata dall’ONU “Giornata internazionale della donna” è svilita nel tempo, spesso ridotta – in epoca pre Covid – a occasione, neanche tanto rara, di ritrovi festaioli con sbaraccate ridanciane davanti a spogliarellisti, leonesse per un giorno davanti all’immagine del maschio ridicolizzato.
Forse questo periodo di costrizione ha aiutato anche a ridimensionare questa storpiatura, riconducendo la ricorrenza alla sana riflessione e a un necessario bilancio che ci riguarda da vicino.
Continuiamo pure a sbandierare le nostre mimose, come vessilli rivoluzionari, come è stato in molte altre rivoluzioni colorate – la rivoluzione dei garofani in Portogallo, quella dei gelsomini nella Tunisia della Primavera araba, quella delle rose in Georgia, quella dei tulipani in Kirghizistan… – e non dimentichiamoci dei restanti 364 giorni dell’anno. Perché, oltre a festeggiare, dobbiamo difenderci, affermarci, sostenerci, esercitare tutto il nostro coraggio, la nostra voglia di essere donne consapevoli del proprio valore sempre, e non solo a ritagli.
In copertina : New York, l’incendio nella fabbrica di camicie Triangle in cui il 25 marzo 1911 perirono 146 persone (123 donne)
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Liliana Cerqueni
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